PARADIGMI
"L'argomentazione fondata sull'esempio (paradeigma) non passa dalla parte al tutto, né dal tutto alla parte, ma procede dalla parte alla parte, quando cioè entrambe le parti siano subordinate ad una medesima nozione, ed una delle due risulti nota. Tale modo di argomentare differisce poi dall'induzione, in quanto quest'ultima, come si è visto, parte da una totalità di oggetti indivisibili e prova in seguito l'appartenenza dell'estremo maggiore al medio, senza connettere il sillogismo all'estremo minore, mentre l'argomentazione fondata sull'esempio opera questo collegamento, ed al tempo stesso non conduce la prova sulla base di una totalità di oggetti indivisibili"
Aristotele, Primi Analitici, 69a 15-20
Aristotele
C'è una scienza che considera l'essere in quanto essere (éstin epistéme tis ê theoreî tò òn ê on) e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non s'identifica con nessuna delle scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze considera l'essere in quanto essere in universale, ma, dopo aver delimitato una parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte. Cosi fanno, ad esempio, le matematiche. Orbene, poiché ricerchiamo le cause e i principi supremi, è evidente che questi devono essere cause e principi di una realtà che è per sé. Se, dunque, anche coloro che ricercavano gli elementi degli esseri, ricercavano questi principi (supremi), necessariamente quegli elementi non erano elementi dell'essere accidentale, ma dell'essere in quanto essere. Dunque, anche noi dobbiamo ricercare le cause prime dell'essere in quanto essere
ARISTOTELE, Metafisica IV, 1003a, 20-32
È impossibile (adynaton) che ci sia dimostrazione di tutto: in tal caso si procederebbe all'infinito (eis ápeiron), e in questo modo, per conseguenza, non ci sarebbe dimostrazione. Se, dunque, di alcune cose non si deve ricercare una dimostrazione, essi non potrebbero, certo, indicare altro principio che più di questo non abbia bisogno di dimostrazione. Tuttavia, anche per questo principio, si può dimostrare l'impossibilità in parola, per via di confutazione: a patto però che l'avversario dica qualcosa. Se, invece, l'avversario non dice nulla, allora è ridicolo cercare una argomentazione da opporre a chi non dice nulla, in quanto, appunto, non dice nulla: costui, in quanto tale, sarebbe simile ad una pianta. E la differenza fra la dimostrazione per via di confutazione e la dimostrazione vera e propria consiste in questo: che, se uno volesse dimostrare, cadrebbe palesemente in una assunzione di principio (aiteisthai to en arche); invece, se causa di questo fosse un altro, allora si tratterebbe di confutazione e non di dimostrazione. Il punto di partenza, in tutti questi casi, non consiste nell'esigere che l'avversario dica che qualcosa o è, oppure che non è (egli, infatti, potrebbe subito obiettare che questo è già un ammettere ciò che si vuol provare), ma che dica qualcosa che abbia un significato per lui e per gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé medesimo né con altri; se, invece, l'avversario concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci sarà già qualcosa di determinato. E responsabile della petizione di principio non sarà colui che dimostra ma colui che provoca la dimostrazione: e in effetti, proprio per distruggere il ragionamento, quegli si avvale di un ragionamento. Inoltre, chi ha concesso questo, ha concesso che c'è qualcosa di vero anche indipendentemente dalla dimostrazione.
ARISTOTELE, Metafisica IV, 1006a, 7-28
CONTRAPPUNTI di Fabio Treppiedi
Adynamia
I
Il principio più sicuro di tutti (bebaiotate archè) è quello intorno al quale è impossibile cadere in errore: questo principio infatti deve essere il principio più noto (infatti, tutti cadono in errore circa le cose che non sono note) e deve essere un principio non ipotetico. Infatti, quel principio che di necessità deve possedere colui che voglia conoscere qualsivoglia cosa deve già essere posseduto prima che si apprenda qualsiasi cosa. È evidente, dunque, che questo principio è il più sicuro di tutti. Dopo quanto si è detto, dobbiamo precisare quale esso sia. È impossibile (adynaton) che la stessa cosa, nello stesso tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa secondo lo stesso rispetto (e si aggiungano pure tutte le altre determinazioni che si possono aggiungere al fine di evitare difficoltà di indole dialettica). È questo il più sicuro di tutti i principî.
ARISTOTELE, Metafisica IV, 1005b, 10-20
L'incipit del quarto libro della Metafisica suona come il raggiungimento di un traguardo: "c'è una scienza che considera l'essere in quanto essere (estin episteme tis he theorei to on hei on)" (Met., 1003a, 20). Scienza che consiste, prima ancora che in una serie di apprendimenti discorsivi o dimostrazioni con annesse modalità di sviluppo, nell'esposizione di principî indimostrabili sui cui si fondano tutte le dimostrazioni, a tal punto da convincere e costringere ad ammettere preliminarmente tali principî chiunque voglia conoscere, agire, pensare o parlare. Aristotele incentra l'episteme nient'altro che sull'esposizione di uno ed un solo principio: "è impossibile che la stessa cosa, a un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto (to gar auto hama hyparchein te kai me hyparchein adynaton to auto kai kata to auto)" (1005b, 19-20). Dell'imperturbata verità di questa formula è prova l'elenchos, la confutazione, l'effetto sortito in coloro che, proprio volendo negare il principio, non possono fare altro che servirsene. Quell'"impossibile (adynaton)" impedirà di muovere in direzioni diverse da quella alle quali il principio più sicuro vincola.
Aristotele trova così il sortilegio più efficace contro ogni "avversario (anphisbeton)" del principio, con una formula che lo riduce al silenzio o lo condanna all'"ignoranza (apaideusia)" a seconda se l'avversario taccia o del principio pretenda dimostrazione. Il prodigio della formula è restituito anche dal caleidoscopio dei suoi effetti a lungo termine, dalle riduzioni della bebaiotate archè a regola logica – l'arcinoto principio di non contraddizione – ai discorsi edificanti sulla confutazione passando per l'eccitazione di logici fuzzy che sfidano Aristotele quasi a farne un nano, una statuina da museo, o per la magnanimità di chi riabilita l'avversario avendolo ridotto a testimonial della "scelta di vita (proairesis tou biou)" (1004b, 25) sana e giusta di chi, accettata la confutazione, ha saputo liberarsi dall'apaideusia.
Effetti, questi ed altri, derivanti dal fatto che, in risposta all'impatto intollerabile col principio, Aristotele fa di questo un concetto e lo nomina archè. Un'operazione che gli darà modo di arginare l'insorgere convulso e insostenibile del principio nella theoria, nella contemplazione in sé, nella più sterminata latitudine del pensare, mediante l'isolamento in essa di un apposito dinamismo, l'archè, un dispositivo capace di dirottare verso l'episteme la densa sperimentazione implicita nell'intuire il principio. Col concetto di archè, Aristotele impianta la theoria del principio sull'energheia, l'"atto" che arresta il movimento vertiginoso dall'intuire il principio e decide, in anticipo sulla ripresa del movimento, sia della distinzione tra conoscibile e inconoscibile sia del bando dalla theoria dei dinamismi saettanti diversi dall'archè, destinati da qui in poi a dissiparsi come adunata, "impossibili". Assunta aristotelicamente come il concetto che strategicamente circoscrive per il pensiero un inizio necessario, l'archè inscena in effetti il principio, riproducendo e standardizzando il fare esperienza di esso come qualcosa di già iniziato, un'immediatezza che alle spalle non ha nulla e che il pensiero riesce ad individuare ed esprimere solo mediandola, concettualizzandola. Al principio scorto nella theoria Aristotele antepone così una episteme che ne riproduce lo svolgimento solo a condizione di bloccarne la sperimentazione: se prima di questa mossa l'insorgere del principio nella theoria veicolava un che di diverso e perlopiù insondato, nell'essere divenuto archè il principio cambia aspetto.
II
L'atto è l'esistere della cosa, non nel senso in cui diciamo che è in potenza: e diciamo in potenza, per esempio, un Ermete nel legno, la semiretta nell'intera retta, perché li si potrebbe ricavare, e diciamo pensatore anche colui che non sta speculando, se ha capacità di speculare; invece, diciamo in atto l'altro modo di essere della cosa. Ciò che vogliamo dire diventa chiaro per induzione nei casi particolari: infatti, non bisogna cercare definizione di tutto, ma bisogna accontentarsi di comprendere intuitivamente certe cose mediante l'analogia. E l'atto sta alla potenza come ad esempio chi costruisce sta a chi può costruire, chi è desto a chi dorme, chi vede a chi ha gli occhi chiusi ma ha la vista, e ciò che è ricavato dalla materia e ciò che è elaborato a ciò che non è elaborato. Al primo membro di queste relazioni si attribuisca la qualifica di atto e al secondo quella di potenza.
ARISTOTELE, Metafisica IX, 1048b 3-4
Principio che condiziona il processo del suo stesso insorgere, l'archè può ora bloccare ogni sviluppo "all'infinito (eis apeiron)" di tale processo, metterlo in crisi, rallentarlo, spezzarlo e trascenderlo fino a porsi di fronte ad esso come l'istanza che avrà deciso della legittimità dei movimenti in statu nascendi che impegnavano la theoria prima del configurarsi dell'archè. Elevata da Aristotele a fondamento del conoscere, l'archè obbligherà alla prova dell'elenchos quanto di sperimentabile vi è nella theoria. Il principio che fonda, l'archè appunto, scevera così nel pensare il movimento correlabile al conoscere da quello che non lo è, ammettendo il primo come dynamis, "potenza" subordinabile all'energheia ("atto" di un pensare che avrà fine nel conoscere) e respingendo il secondo come aoriston, "indefinibile" poiché non subordinabile al medesimo atto.
Generatasi con l'intuizione del principio, l'archè sbuca dal movimento rapido e infinito della theoria per rituffarvisi e decretare la divisione in virtù della quale l'energheia, l'atto che spezza ogni movimento eis apeiron, priverà della relazione con l'altra ciascuna delle parti che separa e sottrarrà ad una delle due, da lì in poi detta adynamia, "impotenza", l'essere complementare ed anteriore alla dynamis. Una struttura concettuale, quest'ultima, che si radica nel pensare e induce a credere che nel passato ci fosse più di quanto non si ritrovi nel presente. Si attribuisce spesso a ciò che precede il presente una serie di potenzialità che il presente, quando arriva, finisce col bruciare. Come se rispetto alle molte possibilità di senso promesse dal futuro, ci si ritrovasse a fare i conti con questo presente, uno e solo, inevitabilmente deludente. Un contrapporre la ricchezza del passato alla povertà del presente, dunque, che rivela quanto al fondo di un certo essere inclini alla delusione, del pensare che nel passato ci sia di più che nel presente, agisca prepotente e silenziosa l'eredità aristotelica. Non possiamo non dirci aristotelici, nella misura in cui rapportare così passato e presente, più segnatamente, è effetto collaterale del dispositivo aristotelico di potenza e atto, di un pharmakon a cui il pensare si è assuefatto, inesorabilmente tratto in inganno laddove è indotto da questo dispositivo a conferire retroattivamente alla potenza più di quanto transita nell'atto.
L'essere delusi del presente è sintomo di una relazione, quella tra dynamis ed energheia, interiorizzata in modo alquanto coerente con l'impianto aristotelico della theoria, calibrato sull'anteriorità dell'energheia rispetto alla dynamis. In tale impianto l'atto è sia entelekeia, ciò che ha in sé il fine (il telos, termine ultimo del movimento che va dalla potenza all'atto), sia eidos, la forma perfetta cui tende ciò che diviene. Aristotele conferma che la potenza ha in sé più di quanto c'è nell'atto dicendo, nel nono libro della Metafisica, che chi ha una certa potenza continua a possederla anche quando non la esercita in atto (l'architetto ha la potenza di costruire anche quando non sta costruendo). La potenza è definita cioè dal fatto che, rispetto alla sola possibilità di esercitarla in atto, essa ingloba anche la possibilità di non passare all'atto, una strutturale "impotenza (adynamia)" cui la potenza si accompagnerà sempre: "ogni potenza è impotenza dello stesso e rispetto allo stesso (tou aoutou kai kata to auto pasa dynamis adynamia)" (Met. 1046a, 32). Mentre la potenza è sempre potenza d'essere e potenza di non essere, l'atto è invece solo atto d'essere.
III
La causa del sembrare il movimento indefinibile (aoriston) consiste nel fatto che non è possibile affidarlo né alla potenza degli enti né all'atto […] Il movimento sembra in un certo senso atto, ma atto senza fine (energheia ateles), perché è senza fine il possibile, del quale c'è atto e per questo è difficile afferrare che cos'è il movimento; infatti è necessario affidarlo o alla privazione, o alla potenza o all'atto assoluto, ma niente di questo sembra possibile, non resta che dire che il movimento è in un certo senso atto […] atto difficile da vedere, ma che non può non essere
ARISTOTELE, Fisica III, 201b 28 - 202a 2
L'anteriorità dell'energheia risponde al problema del movimento e della sua indefinibilità, che costituisce la difficoltà più aspra per Aristotele. Dai tortuosi passi del terzo libro della Fisica, il movimento (kinesis) emerge come la sua bestia nera, l'elemento ribelle e inaffidabile che sfugge ad ogni definizione.
Per riuscire nell'impresa impossibile di concettualizzare il movimento, per afferrarlo e renderlo visibile, Aristotele lo rappresenta attraverso due metà complementari, dynamis ed energheia. Una rappresentazione che riposa tuttavia sull'arresto del movimento ad opera dell'archè, il dispositivo che conferisce all'energheia il ruolo di parte complementare ed anteriore alla dynamis nello stesso tempo in cui sottrae tale ruolo all'adynamia. Il movimento è ora individuato a partire dai suoi effetti e reso pensabile nei termini del dinamismo che va dalla potenza all'atto e viceversa. Circuitato nel dispositivo dell'archè, il pensiero pensa il movimento solo a partire dal punto in cui lo si esaurisce. Sarà sempre l'atto a decidere della potenza, laddove separa la dynamis dalla potenza del suo contrario, da quell'adynamia che noi, perlopiù aristotelici per abitudini di pensiero, associamo retroattivamente alla potenza come passato che ha perso forza, ipotesi che è venuta meno, possibilità che non essendo passata all'atto è andata perduta. È quindi la rappresentazione aristotelica del movimento ad incidere fatalmente pensare, inducendolo ad assumere il movimento come qualcosa che emerge e viene provato solo a partire da ciò a cui esso avrà dato luogo, dal reale a portata di mano.
Il sospettare dei cambiamenti in corso ci caratterizza come inclini alla delusione, fa uno con la convinzione che solo i fatti a portata di mano siano reali: i cambiamenti per noi non sono nient'altro che aspettative, dedotte in ogni caso a posteriori, laddove sono i fatti a decidere del loro essersi o non essersi realizzate.
Lo stesso pharmakon aristotelico arriva a costituire tuttavia l'antidoto al tutto questo laddove si sperimenta a fondo l'inganno derivante dal pensare che l'atto decida dell'attualità della potenza. Adesso sappiamo infatti che è assumendo il principio come concetto che si arriva a considerare il movimento inesauribile solo in potenza e solo riferito all'atto, e sappiamo anche quanto ciò presupponga in realtà l'esaurirsi inesorabile del movimento lì dove esso inizia a realizzarsi. Il concetto di archè esprimerà la kinesis, il principio intuito in tutta la sua immediatezza, solo come movimento nient'altro che iniziato o concluso e solo come movimento nient'altro che realizzato o fallito. In un modo o nell'altro quindi il movimento si consuma in virtù di un ossessivo desiderio di sapere che cos'è, quando invece è proprio il suo non interrompersi a dare espressione alla kinesis, a ciò che il movimento veramente ed indefinibilmente è, a un principio cioè la cui estensione non è interamente coperta dall'archè, nonostante questa sembrasse poterlo esprimere appieno. Il pharmakon aristotelico determina il riflusso della mediazione del concetto sull'immediatezza del principio, un raggelarsi del primo alla superficie del secondo che ci fa rappresentare il movimento come identico in tutto e per tutto ad una sua ipotetica definizione. Per niente in grado esprimere il movimento però, ogni definizione perde estensione nella misura in cui l'archè, il concetto con cui Aristotele prova a stringerlo, ne spezza la portata. È il potere retroattivo del pharmakon. Ci s'illude di pensare, dire ed esperire il movimento in tutta la sua potenza quando in realtà si è solo cercato di renderlo più tollerabile: il pensiero ne esaurisce una parte, la dynamis, lasciandosi alle spalle l'altra parte, l'adynamia, alla quale per effetto dell'archè sovrappone l'energheia. Ma che non la si veda o non la si afferri, che vi sia un dispositivo capace di attenuarne l'intollerabilità o romperne la continuità, la kinesis non si arresta né si esaurisce ma passa sottotraccia continuando ad informare l'immediatezza dell'intuirlo, che risuona diversa pur restando la stessa cosa, l'estendersi e l'insistere cioè dell'impotenza sull'atto che sembrava potesse soppiantarla. La posta in gioco di quest'estensione, che è d'altra parte il motivo per cui Aristotele avverte nel movimento il suo problema più difficile, è la salvaguardia di quel di più di potenza che si considera perduto una volta che questa passa all'atto.
IV
patire (paschein) non ha un unico significato, ma in una prima accezione è una specie di distruzione da parte del contrario, in un'altra è piuttosto la conservazione (soteria), da parte di ciò che è in atto, di ciò che è in potenza e che gli è simile allo stesso modo che la potenza ha relazione con l'atto. Infatti colui che possiede la conoscenza passa ad esercitarla e quest'attività non è un'alterazione, giacché è un accrescimento (epidosis) del soggetto verso se stesso e la propria realizzazione
ARISTOTELE, L'anima II, 417b 2-7
Da dove ripartire se non da ciò che vi è di più intollerabile per Aristotele? Da quell'indefinibilità estrema del movimento quindi a cui lo Stagirita, dal canto suo, risponde per un verso scindendolo in due concetti (dynamis ed energheia) e, per altro verso, rendendolo visibile in forma di archè. Ora, non potendola concepire né come potenza, né come atto, Aristotele rappresenta la kinesis sì come un "atto (energheia)" ma "senza fine (ateles)" lasciandone in sospeso la definizione dal momento che, se si assumesse appieno il movimento in quest'ultimo senso, non gli si potrebbe dare una forma che lo renda visibile.
Aristotele apre se non altro così alla possibilità scongiurare il carattere retroattivo del dispositivo aristotelico di potenza e atto alla base dell'inclinazione alla delusione. Intendere il movimento in funzione del suo risultato, l'unico conoscibile, resta inevitabile quando lo si è del tutto assunto in forma di archè, il concetto con cui Aristotele cerca di contenere il principio, di mediarlo, renderlo tollerabile e immetterlo nel circuito dell'episteme.
Pensare altrimenti il dispositivo aristotelico non significa svincolare del tutto il movimento dalla potenza e dall'atto quanto piuttosto riprogettare il dispositivo stesso nell'ipotesi d'invertire la relazione tra i due termini. Se si riplasmano cioè potenza e atto in virtù di differenti estensioni del movimento, la dinamica del loro relazionarsi sarà lo slancio in avanti della potenza, che se prima sembrava esaurirsi ora si libera in parte da un'archè che la canalizzava tutta nel conoscere. In parte, dal momento che l'atto continua sì a costituire un arresto provvisorio nel movimento di realizzazione della potenza ma, allo stesso tempo, non coincide più con l'eidos e con il telos rispettivamente intesi come azzeramento della potenza e confine sul quale il movimento di realizzazione si arresta tornando indietro dall'atto alla potenza.
Da un dinamismo all'altro, dall'immediatezza del movimento intuito nel profondo ad una sua eventuale espressione in pensieri, parole e azioni, natura e funzione del dispositivo di potenza e atto possono cambiare: esso sembra dapprima incentrarsi tutto sull'atto, talmente anteriore alla potenza da condizionarla come un a priori statico che decide della sua attualità e fissa un termine per il movimento della sua realizzazione; adesso invece l'atto non esaurisce tale movimento, che al contrario si rigenera in una miriade di passaggi all'atto successivi, come un a priori dinamico in grado di ridefinirsi senza lasciare dietro di sé quanto non si è realizzato della potenza. Il pharmakon diventa la cura nella misura in cui, effettivamente, sono il gioco che l'archè veicola e più ampiamente la mediazione di Aristotele a renderci capaci di sprogettare potenza e atto, invertire gli effetti della loro relazione consueta e pensare una dynamis che, nel passare all'atto, conserva la propria adynamia. Lui stesso fornisce le coordinate di quest'operazione parlando della "facoltà sensitiva (aisthesis)", come di un "patire (paschein)" che è anche "conservazione (soteria)" di quanto è in potenza da parte di ciò che è in atto.
L'"accrescimento (epidosis)", il di più cui Aristotele fa riferimento, è quanto effettivamente transita dalla potenza all'atto conservandosi. È l'adynamia, indice di continuità della kinesis, potenza che ad ogni passaggio all'atto si ridefinisce come ancora da realizzare. Quello che dapprima induce ad attribuire alla potenza più di quanto c'è nell'atto, è un "giusto inganno (apate dikaia)" gorgiano tesoci da Aristotele: solo cascandoci scopriamo che questo di più c'è ancora ed insiste silenziosamente nell'energheia a cui siamo soliti sottrarlo per poi gettarlo all'indietro in direzione della sola dynamis. Certo, si pensa che sia l'atto a togliere qualcosa alla potenza, non si si accorge mai abbastanza però quanto sia la potenza ad aggiungere qualcosa all'atto, a donare all'energheia la propria adynamia, a farvi passare quanto della kinesis resta sempre da realizzare.
Relegata al fondo della theoria, da cui l'episteme le impedisce di risalire, l'adynamia costituisce una riserva per tutti quegli altri dinamismi che l'archè sembra dissipare in modo talmente rapido da non lasciarne cogliere l'esistenza. Seppure in grado di sospendere la kinesis – movimento infinito per velocità ed estensione – quanto basta per immetterla nel circuito dell'episteme, l'archè non può nulla contro la prepotenza della kinesis stessa, unico elemento che per Aristotele resta aoriston – "indefinibile" si legge nella Fisica – e che per ciò stesso costituisce in tutto il suo sistema non il concetto più incisivo, l'archè, ma il principio più intollerabile quanto ad immediatezza. Come se Aristotele gridasse "bisogna fermarsi!", mosso da inquietudine profonda, messo in crisi rispetto al suo profilo più noto, quello dello scienziato, del nume tutelare degli eruditi di ogni epoca e dello stratega della sophia che fa quadrato attorno agli avversari e li mette a tacere. A volerne fare un ritratto, di Aristotele, difficilmente si eviterà di fare i conti con tutti questi cliché che si collocano sul- la tela prima ancora che il pittore abbia iniziato il suo lavoro. Ma l'immagine che potrebbe venirne fuori ora è quella di un altro Aristotele, urlante come l'Innocenzo X ritratto in modo sconvolgente da Bacon sul cliché di Velazquez. Lo si sente gridare un'immediatezza sepolta dentro, un pathos del nascosto, come se il balbettio dei suoi predecessori custodisse di essa più di quanto, una volta ricacciato in gola il grido, egli non sia riuscito a biascicare dicendo archè. Lo vedremo combattuto tra una theoria del movimento che lo obbligherebbe al silenzio e l'ipotesi di una episteme che lo costringe a sacrificarne una parte, a farne un concetto in grado di rendere la kinesis dicibile, visibile e conoscibile ma solo in virtù di una sospensione sofferta, che ne ha spezzato la portata.
V
(1) Principio significa, in un senso, la parte di una cosa da cui si può incominciare a muoversi; ad un capo di una retta o di una strada, per esempio, c'è questo principio, mentre al capo opposto ce n'è un altro. (2) In altro senso, principio significa il punto partendo dal quale ciascuna cosa può riuscire nel modo migliore; per esempio, nell'apprendimento della scienza, talora, non bisogna incominciare da ciò che è oggettivamente primo e fondamento del- la cosa, ma dal punto partendo dal quale più facilmente si può imparare. (3) In altro senso, principio significa la parte originaria e interna alla cosa e da cui la cosa stessa deriva: per esempio, in una nave la chiglia, in una casa le fondamenta e, negli animali, secondo alcuni il cuore, secondo altri il cervello o, secondo altri ancora, qualche altra parte di questo tipo. (4) In altro senso, principio significa la causa prima e non immanente della generazione, ossia la causa prima del movimento e del mutamento; per esempio, il figlio deriva dal padre e dalla madre, e la rissa deriva dall'offesa. (5) In altro senso, il principio significa ciò per volere del quale si muovono le cose che si muovono e si mutano le cose che si mutano; per esempio, le magistrature delle città, le oligarchie, le monarchie e le tirannidi, e così anche le arti e, tra queste, soprattutto le architettoniche. (6) Inoltre, il punto di partenza per la conoscenza di una cosa si dice, esso pure, il principio della cosa; le premesse, per esempio, sono principî delle dimostrazioni. In altrettanti sensi si intendono anche le cause: infatti tutte le cause sono principî. Dunque, carattere comune a tutti i significati di principio è di essere il primo termine a partire dal quale una cosa o è o è generata o è conosciuta.
ARISTOTELE, Metafisica V, 1012b 35 – 1013a 20
L'esprimersi di Aristotele s'incentra sul suo aver optato per l'episteme con l'intenzione di ridimensionare quanto del principio sperimentavano e sapientemente pativano i suoi bistrattati predecessori nella theoria. Aristotele include il movimento nel pensiero contraffacendolo, rispondendo cioè alla portata intollerabile della kinesis, con l'archè, un concetto in grado di contenerla solo nella misura in cui occulta l'alterazione fattale subire dall'intelligenza del filosofo che ne argina il potere di effrazione, come ad opporvi istintivamente una forza contraria e più che può uguale. L'effetto che Aristotele ottiene è mitigare l'asprezza dell'enigma del movimento senza scioglierlo fini in fondo, contribuendo indirettamente alla costruzione della sua immagine più nota, un cliché sorto dal momento stesso in cui il movimento intollerabile che lo ha spinto a concepire l'archè è caduto alle spalle dell'archè stessa, lì dove questa sembrerà da lì in poi imporsi come l'inizio di ogni cosa.
Un inizio che fa sprofondare i movimenti dichiarati adunata nel buco che l'archè fa alla theoria per tirarsene fuori giusto il tempo di assumere il la non assumibile immediatezza del principio e perimetrare nei suoi pressi uno spazio in cui la conoscenza potrà dirsi fondata. Resta però che questi movimenti, banditi dall'archè e "impossibili (adunata)" per l'episteme, non sprofondano del tutto, vibrano e persistono nella theoria senza che il filosofo possa attenuarne il chiasso, ben lontano dal trasfigurarlo in armonia, come solo i sapienti del calibro di Anassimandro, Eraclito, Parmenide ed Empedocle sapevano fare. Sono movimenti aderentissimi alla vita anche se difficilmente assecondabili, "irrazionali (alogoi)" per l'Aristotele più noto, ma densi di logiche inespresse, di divenire che fuggono alle spalle dell'archè non meno che alle nostre.
Aristotele ha sbarrato con l'archè la strada all'indietro, quasi che si è talmente impossibilitati ad andare dal principio – l'inizio – al concetto da ritrovarsi costretti a muovere dal concetto – il già iniziato – per ritornare al principio, all'immediatezza da cui era impossibile muovere. La sua lezione, insuperata assieme a quella di Platone, è che isolare il principio è il solo modo di sondarne interamente lo svolgimento, il darsi cioè di un intero che in buona parte è insondabile. Quanto di meno isolabile possa esserci, il principio, per Aristotele dovrà essere espresso da quella parte di esso a cui più si adegua il conoscere, un concetto per il principio quindi, l'archè appunto. Le conseguenze sono proporzionali al tempo che ci divide da Aristotele e non sono da poco: sarà sempre estremamente difficile, se non addirittura impossibile, non far dipendere i tentativi di forzare lo sbarramento dalla necessità di ripercorrere non solo il cammino su cui a un certo punto lo ha imposto ma anche il modo in cui lo ha fatto: in Aristotele insomma non si potrà vedere solo l'avvelenatore, il responsabile di una certa inclinazione del pensiero alla delusione. L'apate dikaia a cui ci sottopone, il "giusto inganno" che ci costringe alle sue ragioni, ne fa una figura a metà tra il medico e il taumaturgo dal momento che è sempre tra gli scaffali della sua farmacia che troveremo l'antidoto.
Hegel
L'identità non è che la determinazione dell'immediato semplice, dell'essere morto; invece la contraddizione è la radice di ogni movimento e vitalità; soltanto nella misura in cui qualcosa ha entro sé stesso una contraddizione si muove, ha impulso e attività. La contraddizione viene abitualmente allontanata in primo luogo dalle cose, dall'essente e dal vero in generale; si asserisce che non c'è nulla di contraddittorio. Essa, per contro, viene poi spostata nella riflessione soggettiva, che la porrebbe solo mediante il suo operare per rapporto e comparazione. Ma la contraddizione non sarebbe presente propriamente neanche in questa riflessione, poiché il contraddittorio non potrebbe venire rappresentato né pensato. Sia nell'effettivamente reale o entro la riflessione pensante, essa vale in generale come una contingenza, quasi come se fosse un'anomalia e un parossismo patologico transitorio […] Essa, inoltre, non è da prendere meramente come un'anomalia, che si incontrerebbe soltanto qua e là, bensì è il negativo nella sua determinazione essenziale, il principio di ogni automovimento, che non consiste in nient'altro che in una presentazione di quella. Il movimento sensibile esteriore stesso è il suo esserci immediato. Qualcosa si muove non in quanto in quest'ora è qui e in un altro ora è là, bensì soltanto in quanto in un unico e medesimo ora è qui e non qui, in quanto in questo qui allo stesso tempo esso è e non è. Si devono concedere ai dialettici antichi le contraddizioni che essi fanno vedere nel movimento, ma da ciò non segue che a causa di ciò il movimento non sia, bensì piuttosto che il movimento è l'esserci stesso della contraddizione […] Altrettanto, l'automovimento interno, vero e proprio, l'impulso in generale (appetito o nisus della monade, l'entelechia dell'essenza assolutamente semplice) non è nient'altro se non che qualcosa è entro sé stesso e la mancanza, cioè il negativo di sé stesso, sotto un solo e medesimo riguardo. L'identità astratta con sé non è ancora vitalità, bensì questa consiste nel fatto che il positivo è in sé stesso il negativo, mediante ciò esso va fuori di sé e si pone in mutamento. Qualcosa è dunque vivo soltanto nella misura in cui contiene entro sé la contraddizione, ed è precisamente questa forza di cogliere e sopportare la contraddizione. Ma se un esistente nella sua determinazione positiva non è in grado allo stesso tempo di estendersi alla sua determinazione negativa e di tenere saldamente l'una entro l'altra, di avere la contraddizione entro lui stesso, allora esso non è l'unità viva stessa, non è fondamento, bensì va a fondo nella contraddizione. Il pensare speculativo consiste solo in questo, che il pensare tiene saldamente la contraddizione e in essa tiene saldamente sé stesso, ma non consiste in questo, che esso, come succede alla rappresentazione, si lascia dominare da lei e mediante lei lascia che le sue determinazioni soltanto si dissolvano in altre o in nulla.
G. F. W. HEGEL, Scienza della logica, 1812-1816
CONTRAPPUNTI di Fabio Treppiedi
Sprödigkeit
Non temere! Io sono il primo e l'ultimo, e il vivente; io fui morto, ma ecco sono vivente per i secoli dei secoli, amen; e ho le chiavi della morte e dell'Ades.
Apocalisse 1-18
…alto si leva il suono della cetra:
da qualche luogo segreto mugghiano in risposta
terrificanti imitatori della voce taurina.
E la parvenza sonora di un timpano, come di un tuono
sotterraneo, si propaga con oppressione tremenda
Eschilo, fr. 71
I
Nei tempi più recenti il termine 'sistema' suona come un rimprovero, poiché ci si è fatti l'idea che esso prescriva d'attenersi a un principio unilaterale. Tuttavia il vero significato del termine 'sistema' è 'totalità': si dà 'sistema' solo come totalità di qualcosa che sia vero. La filosofia comincia da ciò che è più semplice e progredisce sviluppandosi in direzione di ciò che è concreto. La storia della filosofia è e non è la medesima cosa. Nella filosofia come tale, nella filosofia odierna, nella filosofia più recente, è contenuto appunto ciò che il lavoro ha prodotto nei millenni; essa è il risultato di tutto quanto precede. In essa vi è pure uno sviluppo; ma è qualcosa che appartiene al presente. La storia della filosofia è il medesimo sviluppo, infatti la ragione è una sola, anche se in essa lo sviluppo è presentato sul piano storico: con riguardo al modo in cui i momenti, gli stadi, si susseguono nel tempo. La filosofia è però esposizione dello sviluppo del pensiero nella figura del pensiero semplice, senza aggiunte; la storia della filosofia esprime questo sviluppo come esso s'è svolto nel tempo. Ne segue che la storia della filosofia fa tutt'uno con il sistema della filosofia.
G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, 1825-1826
Se si crede che la dottrina di un filosofo debba stamparsi nella memoria, che a furia di ripetersela se ne possa neutralizzare la difficoltà o attestare la comprensione, è certo che di quel filosofo non rimarranno concetti ma opinioni isolate, parole slegate, formule vuote.
Questo mostra Hegel nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia, insegnandoci quanto la "filastrocca di opinioni" spacciata per storia della filosofia sia scollata dai problemi originari dei filosofi e quanto persino tra gli addetti ai lavori non ci si prenda più la briga di chiedersi se parole, formule e presunti sistemi attribuiti ai filosofi debbano veramente considerarsi loro. Davvero Talete, di cui non rimane opera, ha detto che l'acqua è il principio di tutto o altri, tra i quali il più autorevole Aristotele, gli hanno attribuito solo dopo questa dottrina? La domanda è sintomo di quant'è naturale pensare nei termini della contraddizione e oscillare tra i suoi estremi, per cui o Talete ha detto che l'acqua è il principio di tutto e Aristotele conferma una verità o Talete non l'ha mai detto ed Aristotele mente. Nessuna risposta esaurisce la domanda posta, che persistendo mostra quanto sia impossibile pensare fuori dal dominio della contraddizione, quanto il pensiero si nuova da un opposto all'altro, nello spazio già tracciato prima d'iniziare a pensare da un che di cogente e inaccessibile.
Tutti i grandi filosofi hanno tentato di sciogliere l'enigma dell'impossibilità d'iniziare a pensare, dell'inaggirabile blocco della contraddizione, del secco "no!" di questa, sperimentato come un vento contrario che risospinge in mare aperto o come una chiusa che cala alle spalle, sbarra la rotta all'indietro, non fa procedere e costringe perlopiù a riparare su isole di fortuna.
Fare filosofia non diventa altro che scandagliare quest'impossibilità, ripercorrerne lo sviluppo per "ciò che attiene alla logica" dice Hegel, interrogarsi sul potere di trascinamento, d'inibizione e di sviamento tipico di ciò che i Greci chiamavano archè, del principio, che il pensare non stringe poiché è il principio ad avere sempre stretto il pensiero in una morsa.
È un potere di cui ci danno in parte esempio le occasioni in cui ci compiacciamo dell'originalità di un pensiero che crediamo tutto nostro e scopriamo puntualmente che qualcuno lo ha già pensato o quelle in cui, al netto del nostro sopravvalutarci, reputiamo di non doverci sforzare di pensare più di tanto perché in fondo tutto è già stato pensato da altri.
Al di là dei piccoli esempi è la storia della filosofia a rappresentare per Hegel la "prova empirica" di quanto in filosofia, pur nel variare dei significati "apparenti" che questa assume, "il pensiero è esso stesso il significato, dietro non v'è nulla". Resta però che la varietà dei significati della filosofia, delle risposte date tutte le volte che ci si è chiesti cosa essa sia o che cosa significhi pensare, non è né accidentale né scartabile a seconda dei gusti. Il pensiero, il significato ultimo della filosofia, si configura piuttosto per Hegel come "ciò che è più profondo, ciò che sta più sotto", dal momento che in superficie c'è appunto un'apparenza distinta da esso. Questa si dispiega nel tempo e, cristallizzandosi, di epoca in epoca confina il pensiero in un "significato", in "rappresentazioni abituali" che finiranno per essere superate da "particolari vedute filosofiche". Anche queste però si rabbassano a "rappresentazioni abituali", a riprova di quanto ognuna, presa isolatamente, sia solo l'ennesimo "presupposto" di cui si potrà anche fare a meno per sapere che cos'è la filosofia.
Anche in questo caso è la contradizione a dominare, ed Hegel lo comprende. La consapevolezza di non potersi tirare fuori da essa come con "un colpo di pistola", secondo la nota espressione della Fenomenologia dello spirito, è il paradossale vantaggio di Hegel su predecessori e successori, noi compresi.
Una "veduta filosofica" degrada, si dilegua e alla fine si rovescia in "rappresentazione abituale". Un'altra le si oppone "erompendo" dal suo stesso interno fino ad escluderla, ma finirà anch'essa col degradare, dileguandosi e rovesciandosi, "rabbassandosi" secondo Hegel fino all'esclusione per opera di una veduta ulteriore, e così via. In breve, la contraddizione è principio anche della storia della filosofia. L'anima motrice resta l'archè, che attua la sua logica d'anticipo sul pensiero anche per ciò che attiene alla sua storia. La storia della filosofia mostra d'altra parte qualcosa di più sul principio: lo si nota laddove la filosofia di Hegel, che si muove nella contraddizione e attraverso la contraddizione, quanto più fa apparire dapprima il pensiero ingabbiato, stretto nella morsa del principio, tanto più di esso lascia emergere la libertà. A questa il pensiero può ambire solo emancipandosi dalla cogenza di ciò che dapprima lo ha mosso, dall'obbligo di riferirsi ad altro da sé, dalla tirannia del qualcosa. Libertà che il pensiero guadagna solo nel soggiornare a fondo tra le sbarre dell'archè, nel "pagare il fio" anassimandreo, nello scontare la pena della contraddizione senza cedere al fascino della fuga.
Sulla via lunga e difficile di questa libertà, a vigere sarà sempre più il governo dell'archè invece che la sua tirannia, giacché il principio misura prossimità e distanze tra rappresentazioni abituali e vedute filosofiche ovvero tra vedute filosofiche differenti nel loro approssimarsi e distanziarsi da esso. A muoverle e a far loro da terreno è e resta la contraddizione, che le permea e dà fondo alla libertà di ognuna, le lega e fa sì che divergano fino a superarsi, garantendo che l'eccessiva unilateralità delle une non comporti lo schiacciamento delle altre.
Che ci sia contraddizione tra quanto avrebbe detto Talete e quanto su di lui dice Aristotele non implica per Hegel che la verità stia tutta da una parte. La verità è "il pensiero che reca se stesso alla coscienza" secondo un processo per cui Talete, Aristotele e gli altri sono "determinazioni diverse" di ciò che Hegel chiama l'intero (das Ganze). La storia della filosofia mostra cioè lo "sviluppo del pensare libero" come un "circolo che ritorna sempre in se stesso" integrando le vedute filosofiche, soprattutto laddove le une sono arrivate a contrapporsi alle altre fino a confutarle.
Il rientrare di più vedute nella totalità, nella verità dell'intero di cui si riveleranno parti, passa per un loro reciproco misurarsi che in Hegel è lontano tanto dall'esaurirsi nello scontro quanto dal culminare nell'armonizzazione. Ogni prospettiva infatti torna circolarmente su quello "stesso (das Selbst)" il quale non è altro che il problema del principio, della contraddizione che per Hegel muove tutto, ed è rispetto ad esso che tutte si misureranno più profondamente. Lo sviluppo storico della filosofia attesta quanto la "ritrosia", la "rigidità" e la "fragilità" (termini che si prestano tutti a tradurre il tedesco Sprödigkeit usato da Hegel) sperimentate dal pensiero rispetto alla difficoltà del principio possano – e per Hegel debbano – convertirsi nella consapevolezza che si tratta del problema fondamentale della filosofia, che in quella difficolta ne va del pensare stesso.
II
Ma il fatto che l'accidentale in quanto tale, separato dalla propria sfera, il fatto che ciò che è legato ad altro ed è reale solo in connessione ad altro ottenga un'esistenza propria e una libertà separata, tutto ciò costituisce l'immane potenza del negativo: tutto ciò è l'energia del pensiero, dell'Io puro. La morte, se così vogliamo chiamare quella irrealtà, è la cosa più terribile, e per tenere fermo ciò che è morto è necessaria la massima forza. Se infatti la bellezza impotente odia l'intelletto, ciò avviene perché viene richiamata da questo a compiti che essa non è in grado di assolvere. La vita dello Spirito, invece, non è quella che si riempie d'orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione, ma è quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa. Lo Spirito conquista la propria verità solo a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta. Lo Spirito è questa potenza, ma non nel senso del positivo che distoglie lo sguardo dal negativo, come quando ci sbarazziamo in fretta di qualcosa dicendo che non è o che è falso, per passare subito a qualcos'altro. Lo Spirito è invece questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e soggiorna presso di esso. Tale soggiorno è il potere magico che converte il negativo dell'essere.
G. W. F. HEGEL, prefazione alla Fenomenologia dello spirito, 1807
Individuare nel principio il problema di Hegel non risolve i problemi con questo pensatore decisivo ma viceversa li moltiplica, non solo perché molti suoi lettori non riconosceranno in quello qui individuato il suo vero problema, ma anche perché sul suo profilo, ancor prima che ci si appresti a tracciarlo, grava inevitabile l'ombra che perlopiù gli si attribuisce. A dispetto del giudizio di Hegel secondo cui nessuno dei filosofi del passato è indispensabile per sapere che cos'è la filosofia è invalsa ed è tuttora dura a morire la "rappresentazione abituale" di un Hegel che considera necessario e imprescindibile il proprio pensiero in quanto culmine dello sviluppo storico della filosofia. In altre parole, Hegel avrebbe chiuso il cerchio da lui stesso ritracciato, come a riadattare il copione già visto laddove ad esempio Aristotele risolveva i problemi lasciati aperti dai pensatori precedenti proprio nell'inserirli in uno sviluppo storico di cui egli stesso forgia la chiave ponendosene al vertice. Ammettendo tutto ciò anche rispetto ad Hegel, quasi a cedere quanto basta alla rappresentazione abituale, non è difficile riconoscere la chiave del suo ipotetico cerchio storico filosofico nella "ragione (Vernunft)". La comprensione del ruolo che Hegel assegna a quest'ultima, può se non altro fungere per noi da grimaldello per accedere alla sua prospettiva e rendercene intellegibile il senso. La ragione è per Hegel capacità di sciogliere l'irrigidimento, di far sì che il pensiero non si sclerotizzi sulle singole cose, che s'ingeneri in queste un particolarissimo infragilirsi, un loro corrompersi e consumarsi dall'interno, che tuttavia fa "magicamente" sì che esse divengano altro, qualcosa di più vivo, di più vero, di più ricco. Tanto più la ragione hegeliana non si arresta all'"accidentale in quanto tale" quanto più, in una perpetua e tortuosa coalescenza di vivere e pensare, la vita si spinge in avanti nella morte, ancor più che contro di essa, senza inorridire al pensiero che dentro di sé c'è un germe di morte. Ed è così, "guardando in faccia il negativo", che per Hegel ci si può aprire ad una "realtà effettiva (Wirklichkeit)" la quale, come scrive nelle Lezioni sopraccennate," progredisce sviluppandosi in direzione di ciò che è concreto". Ragionare significa quindi con Hegel penetrare da tutte le prospettive quella "sfera" da cui "l'intelletto (Verstand)" – "immane potenza del negativo" nonché contraltare necessario ed insostituibile della ragione stessa – in un primo momento separa le cose e le tiene ferme, irrigidendole appunto. Pensare che "il vero è l'intero", secondo la nota frase della Fenomenologia dello spirito, vuol dire non considerare definitive le cose al loro primo manifestarsi ma vedere in questo manifestarsi l'inizio del processo che le renderà parti del sistema, dell'unità cioè dell'accidentale e della sfera, di ciò che potrebbe anche non esserci e di ciò che necessariamente c'è. Nell'intendere così la ragione, Hegel funge per noi un po' da pungolo, poiché quanto più ci sprona a superare la parzialità di ogni punto di vista tanto più chiede di penetrare nell'ottica del sistema con la pazienza, la fatica e il dolore a cui il nostro pensiero tende a sottrarsi, per una sorta di "ritrosia" congenita. Alta è d'altronde la posta in gioco, dal momento che si tratta di abbracciare nientemeno che l'infinito, quell'unità del tutto che, ed è questa la cosa più difficile, ha il "potere magico" di conferire ai punti di vista "superati" più verità di quanta ne avessero al loro primo manifestarsi.
La sfida di Hegel non sta tanto nel cogliere l'infinito, nell'afferrarlo al pari di un qualsiasi altro oggetto, di un altro qualcosa, quanto nell'accoglierlo, nel lasciargli penetrare il finito fino ad assorbirlo, a dissolverlo, a "superarlo" sì, ma anche e soprattutto ad "elevarlo (Aufheben)", portarlo al proprio livello, nobilitarlo, riscoprirlo più autentico, più profondo e più vivo di prima. Cogliere l'infinito significa dunque ritrarne la logica, percorrerne sviluppo per intero, aderire al movimento dell'infinito senza risparmiare al pensiero lo sforzo di misurarvisi, di contrapporvi quell'attrito critico che, portato all'estremo, è diventato scetticismo nei confronti della possibilità di conoscere l'infinito. Una sfida, questa di "non riconoscere il finito come il vero essere", storicamente accolta sotto il nome di idealismo dalla filosofia tutta, non ultimo da Fichte e da Schelling, ma secondo Hegel in modo sempre parziale. Se infatti la logica in cui si riassume l'idealismo stesso prima di Hegel mostra tuttalpiù un passare dal finito all'infinito, la logica di Hegel mostra, insieme al passare dal finito all'infinito, il ricadere inevitabile nel finito e soprattutto il riguadagnare la via verso l'infinito laddove la caduta è profonda, nei momenti in cui si è convinti che tutto è finito: proprio quando, si legge nella Fenomenologia, "l'individuo ha preso la propria vita ma in pugno gli è rimasta la morte".
L'infinito per Hegel non è quel qualcosa di sempre più grande che condanna noi, inchiodati al finito, impressionantemente piccoli al suo cospetto, noi che nasciamo, cresciamo e moriamo, a non afferrarlo perché non è mai alla nostra portata. Non è insomma l'ineffabile infinito dei poeti, né quello astratto dei matematici. Né tantomeno è l'infinito dei filosofi, monolite inscalfibile o sfera d'acciaio impenetrabile, natura completa e compatta, sostanza identica a Dio colta non ultimo da Spinoza in relazione a due soli dei suoi infiniti attributi.
L'infinito per Hegel c'è da sempre ed è quanto mai concreto e reale, perché è una cosa sola col finito e noi possiamo, anzi dobbiamo conoscere questa unità attraversandola – questo significa per Hegel fare filosofia – scoprendo che attraversarla non implica affatto aggirare quel suo tratto d'inaccessibilità di cui all'inizio facciamo tutti esperienza. L'infinito si manifesta nella sua verità, quindi per Hegel nella sua unità col finito, laddove nella sua inaccessibilità ci s'imbatte e la si supera, rimuovendo la distanza, la separazione tra finito ed infinito appunto, non prima di averne saggiato a fondo la "durezza (Härte)".
III
L'individuo è semplicemente andato a fondo, e la fragile rigidità assoluta della singolarità si è polverizzata cozzando contro la persistente durezza della realtà. In quanto coscienza l'individuo è l'unità di se stesso e del suo contrario. Ciò significa che quel declino e quella polverizzazione sono tali anche per l'individuo stesso, costituiscono il suo fine e la sua realizzazione; analogamente, suo fine e sua realizzazione è la contraddizione tra l'essenza quale appariva all'individuo e l'essenza quale è in sé. In definitiva, dunque, l'individuo fa esperienza del doppio senso insito nella propria attività con cui si preso la propria vita: esso ha preso la propria vita, ma in pugno, piuttosto, gli è rimasta la morte.
G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, 1807
È solo da questa durezza – scriveva Hegel in Fede e sapere a proposito della "morte di Dio" sperimentata nel cristianesimo moderno – che la "suprema totalità", l'infinito vero, "può e deve risorgere" fino ad "abbracciare tutto, nella più serena libertà della sua figura". Non è il marmo né l'acciaio ma è il cristallo ad esemplificare appieno la materia automodellante dell'intero, della "sfera" di cui parla Hegel. L'infinito è tanto più fragile quanto più il finito è duro e ostinato nel non accoglierlo. Si relazionano l'un l'altro giocoforza cozzando proprio lì, su una sorta di soglia negativa che per Hegel è appunto "fragilità (Sprödigkeit)", un elemento che finito e infinito hanno in comune nella misura in cui l'uno non è l'altro e viceversa. Il problema infatti non è che questa distanza e questa separazione non si diano o che siano assolutamente false. Al contrario ci sono eccome, le viviamo ogni giorno sulla nostra pelle, "nel dolore del vivente" scrive Hegel nella Scienza della logica, proprio per questo ci convinciamo che siano insuperabili e che non ci sia per noi accesso all'infinito, a ciò che gli idealisti ed Hegel chiamano l'Assoluto, ad un reale "sciolto da (ab solutus)" ogni separazione, dai limiti, dalle rotture, dalle imperfezioni, dalle contraddizioni, dal tempo, insomma da tutto quanto è spesso motivo concreto di sofferenza, d'inquietudine, di morte, d'inappagamento, di quelle dimensioni essenziali del finito, che reputiamo appartenerci nella misura esatta in cui non ci apparterrebbe invece l'infinito. Ebbene l'errore fondamentale che facciamo nella vita come nella conoscenza, errore che per Hegel è prezioso e va assunto come punto di partenza della filosofia stessa, è proprio pensare che il negativo – termine in cui si coagula tutto quel senso del limite, della separazione e del dolore – riguardi solo noi e non l'infinito, che tutto ciò che risulta insuperabile sia destinato a rimanere tale. Pensando questo infatti, si chiede Hegel, non togliamo già all'infinito la possibilità di fare anch'esso esperienza del negativo? Di esserne soggetto come lo siamo noi? E come può dirsi infinito ciò a cui si preclude qualcosa, l'attraversamento stesso del negativo, che non è precluso al finito? Escludere l'infinito dall'esperienza del negativo non significa in fondo limitarlo allo stesso modo di come si limita il finito convincendosi che per esso l'infinito è inaccessibile? Una volta preclusa all'infinito l'esperienza del finito e al finito l'esperienza dell'infinito cosa ne sarà della loro relazione? A partire da queste domande Hegel nota che le formulazioni dell'infinito elaborate fino a quel momento, dall'antichità al Romanticismo passando per la matematica e la filosofia, esprimono un "cattivo infinito", imprigionato (captivus) nel punto di vista del finito, nei limiti cioè delle possibilità conoscitive umane, addirittura ridotto a meno del finito stesso, dal momento che gli si nega quella possibilità di fare esperienza del negativo che il finito invece ha. Cos'è che allora manca ad ogni cattivo infinito per essere vero infinito? Cosa cioè può farci passare dal pensare l'infinito nei soli termini dell'estensione e della quantità irrimediabilmente indeterminati al pensarlo come un'unità la cui qualità stia soprattutto nel contenere tanto il determinato quanto l'indeterminato? Alla ricerca di cosa si è quindi lanciato Hegel, mosso egli stesso da quel pungolo che ci ha poi lasciato in eredità? Nient'altro che il negativo, il secco "no" che ogni grande filosofo si è sentito urlare alle spalle, "il più intimo e oggettivo momento della vita" scrive Hegel nell'Enciclopedia delle scienze filosofiche, la porta del sistema agognato dall'idealismo che Hegel non intende lasciare chiusa, la via verso la "conquista della propria verità" da parte dello Spirito – inteso da Hegel come "lo stesso (das Selbst)" richiamato qui all'inizio che però "ha fatto ritorno" dall'esperienza del negativo arricchendosi di essa – il criterio che dispone le cose come parti o gradi in rapporto alla verità dell'intero. Hegel rintraccia così il principio da lui ricercato nel negativo come vero e unico elemento di continuità tra finito e infinito, saldabili logicamente – quindi non proprio per "magia" come Hegel ironicamente scrive nel passo citato – nell'unità di un infinito reale, concreto, effettivo, affrancato dai vincoli. Questo infinito, libero e vero, è capace sia di contenere il finito sia di valorizzarne l'iniziale distinguersi dall'infinito per "tornare (zurückkehren)" a relazionarvisi, proprio come "l'accidentale in quanto tale", la vita singolare di ognuno, torna sempre a fare i conti con la "sfera" della vita comune a tutti.
È necessario per Hegel riconoscere soprattutto all'infinito il carattere negativo che si è soliti attribuire solo al finito. Il dolore, la contraddizione, la separazione, l'inquietudine, la caduta, la morte, tutto il carico di negatività insomma che si è sempre reputato proprio del finito diventa ora un tratto essenziale dell'infinito. Questo si manifesta infatti non più stando fermo in se stesso ma al contrario non smettendo mai di attivarsi, uscendo fuori di sé e conquistando per questa via più fermezza di quanta ne avrebbe se non si schiodasse dalla posizione angusta che prima dell'idealismo occupava nel pensiero, posizione che per Hegel lasciava pensare solo il riflesso dell'infinito e non la sua verità, solo il suo essere sostanza statica e non soggetto dinamico.
L'infinito è infatti vero nella misura in cui si muove – perciò Hegel parla di "automovimento (Selbstbewegung)" – e muovendosi nega se stesso come mettendosi alla prova. Nel segno della negatività l'infinito, dice Hegel, "procede continuamente al di là di ciò che è", si fa finito dunque, si nega e si supera fino a frantumarsi e scomparire, cade e affronta le avversità fino a farsi male e morire, si spoglia del proprio privilegio e della propria assolutezza fino a ingabbiarsi nella ristrettezza e nella relatività di un punto di vista.
Hume
La passione per la filosofia, come quella per la religione, sembra soggetta a questo inconveniente che, sebbene essa tenda alla correzione dei costumi e all'eliminazione dei vizi, può servire, se usata in modo imprudente, soltanto a nutrire un'inclinazione predominante ed a spingere la mente, con più determinata risoluzione, verso quella parte che già l'attira anche troppo per propensione e tendenza del temperamento naturale. È certo che, mentre aspiriamo alla magnanima fermezza del sapiente e del filosofo e cerchiamo di racchiudere i nostri piaceri del tutto dentro le nostre menti, possiamo finire per rendere la nostra filosofia come quella di Epitteto e degli altri stoici, soltanto un più raffinato sistema di egoismo, per indurre noi stessi con buone ragioni a lasciare ogni virtù, come ogni godimento sociale. Mentre studiamo con attenzione la vanità della vita umana, e volgiamo tutti i pensieri alla natura vuota ed effimera delle ricchezze e degli onori, forse non facciamo che lusingare senza sosta la nostra indolenza naturale, la quale, odiando il trambusto del mondo ed il lavoro aspro ed estenuante degli affari, cerca un pretesto ragionevole per darsi una piena ed incontrollata indulgenza. C'è, tuttavia, una specie di filosofia che sembra poco soggetta a quest'inconveniente e ciò perché non si accorda con alcuna disordinata passione della mente umana, né può mescolarsi con qualche propensione o affezione naturale; è la filosofia accademica o scettica. Gli accademici parlano sempre di dubbio e di sospensione del giudizio, di pericolo di determinazioni affrettate, di limitazioni in confini molto stretti per le ricerche dell'intelletto, e di rinuncia a tutte le speculazioni che non rientrano nei limiti della vita comune e della comune attività. Nulla, pertanto, può essere più contrario di una simile filosofia alla supina indolenza della mente, alla sua avventata arroganza, alle sue altere pretese ed alla sua credulità superstiziosa. Essa mortifica tutte le passioni, all'infuori dell'amore per la verità; e questa passione non è né può essere spinta ad un grado troppo elevato. Sorprende, perciò, che questa filosofia, che in quasi tutti i casi, dev'essere innocua e innocente, sia soggetto di tanti rimproveri e maldicenze senza fondamento. Ma, forse proprio la circostanza che la rende così innocente è quella che la espone all'odio e al risentimento pubblici. Poiché non solletica passioni sregolate, guadagna scarsi partigiani; e poiché si oppone a tanti vizi e follie, solleva contro di sé abbondanza di nemici, che la stigmatizzano come libertina, profana ed irreligiosa. Né dobbiamo temere che questa filosofia, mentre si sforza di limitare le ricerche della vita comune, venga minando i ragionamenti della vita comune, e spinga i suoi dubbi tanto oltre da distruggere ogni azione, così come ogni speculazione. La natura conserverà sempre i suoi diritti, e prevarrà alla fine su qualsiasi ragionamento astratto, qualunque esso sia. Per quanto noi concludiamo, per esempio, come nella sezione precedente, che, in tutti i ragionamenti derivanti dall'esperienza, c'è un passo compiuto dalla mente che non è sorretto da alcun argomento o processo dell'intelletto, non c'è pericolo che questi ragionamenti, dai quali dipende quasi l'intera conoscenza, vengano intaccati da una simile scoperta. Se la mente non è costretta a compiere questo passo da argomenti, dev'essere indotta a tanto da qualche altro principio di eguale peso ed autorità; e questo principio manterrà la sua influenza finché non cambierà la natura umana. Che cosa sia questo principio può essere certamente cosa degna delle fatiche della ricerca. Supponete che una persona, sebbene dotata delle più robuste capacità di ragionamento e di riflessione, venga portata all'improvviso in questo mondo; essa osserverebbe certo immediatamente una continua successione di oggetti, un fatto dopo l'altro; ma non riuscirebbe a scoprire qualche cosa di più. Sulle prime non riuscirebbe, con qualche ragionamento, a conseguire l'idea di causa ed effetto, poiché i poteri particolari, dai quali vengono compiute tutte le operazioni della natura, non appaiono mai ai sensi; né è ragionevole concludere, soltanto perché un avvenimento, in un caso, ne precede un altro, che perciò uno è la causa e l'altro è l'effetto. La loro congiunzione può essere arbitraria e casuale. Può non esserci alcuna ragione per inferire l'esistenza dell'uno all'apparire dell'altro. In una parola, una tale persona, senza maggiore esperienza, non potrebbe mai adoperare la sua congettura o il suo ragionamento intorno a qualche questione di fatto (matter of fact) né potrebbe essere sicura di qualche cosa all'infuori di ciò che è immediatamente presente alla sua memoria ed ai suoi sensi. Supponete, ancora, che essa abbia acquisito maggiore esperienza e che abbia vissuto così a lungo al mondo da aver osservato oggetti o avvenimenti familiari che sono costantemente congiunti insieme; qual è la conseguenza di quest'esperienza? Quella persona inferisce immediatamente l'esistenza di un oggetto dall'apparire dell'altro. Finora essa non ha acquisito, con tutta la sua esperienza, alcuna idea o conoscenza del potere segreto con cui l'un oggetto produce l'altro; né che essa sia costretta a trarre quest'inferenza da qualche processo di ragionamento. Ma tuttavia essa si trova costretta a trarla; e anche se fosse convinta che il suo intelletto non ha alcuna parte nell'operazione, continuerebbe egualmente nello stesso corso di pensiero. Vi è qualche altro principio che la costringe a formare una tale conclusione. Questo principio è la consuetudine o abitudine. D. HUME, Ricerca sull'intelletto umano, 1748
In città abbiamo un fenomeno singolare, un certo Blacklocke, un poeta molto elegante, nato cieco. I suoi scritti sono particolarmente notevoli per la giustezza e la proprietà delle immagini, anche se lui ammette di non avere nessuna idea della luce o dei colori. In Inghilterra un gentiluomo ingegnoso sta scrivendo un libro per risolvere il fenomeno, che è certamente molto singolare. Il poeta mi dice che prova un piacere singolare nel leggere i poeti rurali, Teocrito e Virgilio: capisce infatti i linguaggi colti. Di più, le stagioni di Thomson sono il suo libro favorito; ma dice che ai termini che esprimono luce e colore egli annette, per una falsa associazione, certe idee intellettuali. Così concepisce l'illuminazione del sole come la presenza di un amico, l'allegro colore verde come una simpatia sociale. Per noi, che possediamo la vista, questo resoconto è scarsamente intelligibile. D. Hume, Lettera all'abate Le Blanc, 1754
CONTRAPPUNTI di Fabio Treppiedi
Slipping inside
I fratelli Watchowski hanno posto molte domande nella sceneggiatura: mi hanno detto di andarmi rileggere Schopenhauer, Hume e Nietzsche
Keanu Reeves
I
Per mia grande fortuna, se la ragione è incapace di dissipare queste nubi, a ciò pensa la natura, la quale mi cura e guarisce di questa tristezza e di questo delirio filosofico: la tensione della mente si allenta, mi distraggo, un'impressione vivace dei miei sensi manda in fuga tutte queste chimere. Ecco, io pranzo, gioco a tric-trac, faccio conversazione, mi diverto con gli amici: quando, dopo tre o quattro ore di svago, ritorno a queste speculazioni, esse mi appaiono così fredde, così forzate e ridicole, che mi vien meno il coraggio di rimettermici dentro. Eccomi dunque deciso a vivere, a parlare e agire come l'altra gente negli affari comuni della vita. E poiché, nonostante la naturale tendenza e il corso degli spiriti animali e delle passioni, che mi riconducono alla indolente credenza nelle massime generali della gente, sento ancora gli avanzi della precedente condizione, sono pronto a gettare tutti i miei libri e le mie carte nel fuoco, e a decidere di non rinunciare oramai più ai piaceri della vita per amore dei ragionamenti e della filosofia. Perché questi sono i miei sentimenti in questo momento di malinconia che mi ha preso. Io posso, anzi debbo cedere alla corrente naturale, e sottomettermi ai miei sensi e al mio intelletto: con questa cieca sottomissione dimostro perfettamente la mia disposizione e i miei princìpi scettici. Perché debbo andar contro la corrente naturale che mi porta all'indolenza e al piacere, e segregarmi dal commercio e dalla società degli altri uomini ch'è così gradita, e torturarmi il cervello con sottigliezze e sofismi, quando poi non sono neppure sicuro della ragionevolezza di tanta fatica, né ho fiducia di poter arrivare per questa via alla verità e alla certezza? Chi mi obbliga a perdere così il tempo? E serve per il bene dell'umanità, o per il mio interesse privato? No: Se debbo essere uno stolido, come certamente sono tutti coloro che pensano e credono ogni cosa, la mia stolidezza sia almeno piacevole e naturale. Se lotterò contro una mia inclinazione, ch'io abbia almeno una buona ragione a far ciò. Non voglio più andare errando in queste tristi solitudini e per questi impervi sentieri, in cui mi sono imbattuto fin qui. D. HUME, Trattato sulla natura umana, 1739-1740
La frase Slip inside the eye of your mind – "scivola dentro l'occhio della tua mente" – apre Don't look back in anger, canzone degli Oasis investita di una simbolicità articolatasi negli anni su piani non solo musicali. Piani su cui è emersa poi la valenza edificante del pezzo, fusasi di recente col mito à la page della resilienza.
Meditando sulle pagine appena lette di Hume con questo brano in sottofondo, può accadere che un'articolazione ulteriore della simbolicità sopraccennata inizi ad attrare i pensieri, ad informarli. Ed ecco che, sul versante dei concetti creati dallo scozzese e nell'orizzonte del principio a partire da cui li forgia, la tendenza s'inverte balzando in climi inquietanti con una virata talmente repentina da far spezzare il filo stesso dell'articolazione. Tutt'altro che resilienti, quasi non sappiamo più se la mente in questione sia la nostra o quella di Hume che sogna la rivoluzione disteso a terra, col suo turbante, al posto di Liam Gallagher nella copertina di Definitely Maybe. L'occhio di non si sa chi, forse del poeta Blacklocke che non ne ha mai fatto uso, non assorbe l'urto e il suo bulbo si strappa da una retina un po' strana, intessuta com'è dall'abitudine, da una forza prepotente che ha determinato l'inaspettata inversione di tendenza e che presiedeva già all'articolarsi delle tendenze edificanti. Passate diverse stratificazioni della mente, il bulbo reciso rotola adesso su un piano mobile, scivolando lungo una superficie sempre più ripida, con sempre meno possibilità di passare ad altro, di articolare nuovi simboli. Prima che il brano sia finito l'occhio implode, viene risucchiato nel suo centro come una palla di biliardo nella buca, mentre l'abitudine di cui Hume parla pare sia rimasta lì a contemplare se stessa.
Il vertiginoso capitombolo dell'occhio della mente, lo sprofondare di pensiero e visione l'uno nell'altra, più che una capitolazione, è l'ennesimo capitolo del bilancio sempre provvisorio di un filosofare da empirista, nello stile di Hume, che si immerge nell'esperienza consapevole del rischio. Lo scivolamento che abbiamo raccontato può rientrarvi solo perché, tornando in noi, abbiamo risalito all'indietro la sua traiettoria. Scendere e risalire. È la prestazione filosofica richiestaci da Hume, uno degli originalissimi movimenti del pensare da lui messi puntualmente a tema.
L'esperienza si misura qui solo ed esclusivamente con se stessa ed è dal suo fondo che emergono e si staccano la mente, l'anima, l'io. Istanze, queste tutte, accomunate dall'essere seconde all'esperienza, che la registrano solo all'ombra del costituire l'esperienza stessa il prius, qualcosa dell'ordine di ciò che i filosofi greci chiamavano archè. Ma come la ricostruzione aristotelica della vicenda di "coloro che per primi filosofarono" (Metafisica I, 983b 8) ha richiesto diverse letture in controluce per iniziare ad essere compresa, così l'argomentazione humeana sulla natura umana pressa ancora oggi chi la legge, quasi lo strattona, inducendolo a non considerare accessorio il tono di Hume, di ascoltarne il discorso in sottotraccia. Discorso per molti versi incontenibile, questo dello scozzese, al pari del principio che lo sottende senza esaurirsi nei concetti intarsiati alla sua superficie. Proprio come d'altra parte le geometrie del concetto tutto aristotelico di archè non esauriscono il fondo magmatico a contatto col quale i primi pensatori greci hanno esperito, fino a pensarlo, il principio. Tanto questi quanto Hume sussurrano ancora il segreto che smarca i loro discorsi dal tempo, che fluisce fra le maglie dei concetti impolverati. Come papiri che si srotolano, i loro discorsi sgattaiolano via dalle strategie di contenimento a cui li si è sottoposti. Da quella di Aristotele, che riarrotolando fittamente nell'archè la vicenda dei primi pensatori ha sbarrato all'indietro ogni sentiero verso di loro, al raddoppio sulla medesima strategia da parte di Hegel, che apponendo sul futuro della filosofia il sigillo del Begriff, ha sbarrato in avanti le rapide che si dipartono da Hume.
II
Per quanto possiamo a ogni istante constatare la successione relativa come variabile e interrotta, si può esser certi che un momento dopo le attribuiamo una perfetta identità e la consideriamo come invariabile e ininterrotta. La nostra tendenza a quest'errore, a cagione della detta somiglianza, è così grande che vi cadiamo prima di accorgercene; e benché con la riflessione e col ritorno a un metodo più accurato di pensare ce ne correggiamo di continuo, pure non riusciamo a sostenere a lungo la nostra filosofia e a liberare l'immaginazione da questa sua tendenza. L'ultimo nostro ripiego, allora, è di arrenderci e affermare sfacciatamente che questi differenti oggetti in relazione sono in verità la stessa cosa, per quanto interrotti e variabile. Per giustificare questo assurdo ai nostri occhi, immaginiamo spesso qualche nuovo e inintelligibile principio che unisca gli oggetti insieme e ne prevenga l'interruzione o la variazione. Così ci fingiamo una continuata esistenza delle nostre percezioni sensibile per negarne l'interruzione, e ricorriamo alla nozione di un'anima, di un io, di una sostanza, per mascherare la variazione. E quando anche non ricorriamo a una tale finzione, la nostra tendenza confondere l'identità con la relazione è tanto grande, che incliniamo a immaginare qualcosa d'ignoto e misterioso che riconnetta le parti, oltre la loro relazione: tale mi sembra l'identità che attribuiamo alle piante e ai vegetali. E quando anche ciò non avviene, sempre proviamo la tentazione di confondere queste idee, per quanto su questo punto non riusciamo a stare tranquilli mai pienamente e a trovare qualcosa d'invariabile e ininterrotto che giustifichi la nostra nozione d'identità. D. HUME, Trattato sulla natura umana, 1739-1740
È al fondo della pura esperienza che Hume lancia una sonda, tesa a scandagliare l'abitudine. Quanto più la sonda perimetra la superficie dell'esperienza tanto più se ne percorrerà filosoficamente il rovescio, in cerca di un'aderenza sempre maggiore al piano via via segnato. Hume ne costeggia il limite, su cui l'esperienza e le sue espressioni danno a pensare, proprio lì, dove l'intreccio dei due versi della superficie, physis e logos rifratte l'una nell'altro, si profila come un enigma. Un intreccio che nel suo discorso è appunto l'abitudine, su cui l'io germoglia e non sa di specchiarsi.
Prima di scivolare dentro il piano, come Hume caldeggia di fare con prudenza, l'io vi fluttua in equilibrio precario, ignaro della sua diplopia, di una vista piatta e corta che preclude all'occhio della mente di scorgere l'abisso da cui proviene. Cruciale è allora il momento in cui si perde l'equilibrio per iniziare a scivolare, quando il bagliore di un istante, un glimpse, neutralizza la diplopia abituale facendo di colui che pensa una cosa sola col suo sguardo e di questo una cosa sola con l'orizzonte perscrutato.
Nell'istante è come se il pensare facesse centro, o si facesse centro esso stesso allorquando sprofonda in un che di estraneo al common sense, in qualcosa che lo pungola, azzera le distanze e si colloca all'origine di ogni spazio da lì tracciabile.
Non vi è nulla di nichilistico nello smantellamento humeano dell'identità personale. È un processo rioperabile a partire da lui, ma con altrettanta cautela, dal momento che si tratta, più che della dissoluzione tout court dell'io, di un temporaneo dissolversi nel medesimo principio che presiede alla sua costituzione, nell'abitudine che incrostatasi alla propria superficie si è fatta anima, mente, sostanza.
Quanto appena sbozzato è se non altro cifra di stile, del filosofare stesso come la decisione di tornare a sintonizzarsi col centro da parte di chi non intende dissolversi del tutto, nonostante il movimento che attua condivida origine e traiettorie con movimenti più compromettenti, che precipitano rapidi dal centro senza farvi ritorno.
Solo quando l'istante cessa, l'occhio della mente può d'altro canto tornare alla sua normalità, all'abitudine che echeggia nella natura incavernata dell'uomo, che dà quasi sempre le spalle all'abisso, che calibra il self sul common sense, lì dove l'immaginazione ha fuso silenziosamente miriadi di cose, di situazioni che a loro volta si rinsaldano per Hume nella credenza, nella pistis su cui Platone gettava un sospetto nella Repubblica, come nello scorrere sotterraneo di un'esperienza abbandonata al suo segreto, al gioco insidioso di ombre che vanno interrogate con cautela.
È sulla scorta di quest'abbandono che secondo Hume l'io, la crosta dell'esperienza pura, trascinato dall'abitudine attraverso le correnti dell'immaginazione e della credenza, può fantasticare di sé come del prius, convinto come non mai che la mente in cui alberga la certezza non può che essere la propria.
III
Ma che necessità abbiamo di cercare altri esempi, mentre l'argomento presente, delle probabilità non filosofiche, ce ne offre uno così chiaro nell'opposizione fra il giudizio e l'immaginazione, derivante da questi effetti dell'abitudine? Secondo il mio sistema tutti i ragionamenti non sono altro che effetti dell'abitudine, e l'abitudine non ha altra influenza che di ravvivare l'immaginazione e darci una forte rappresentazione dell'oggetto. Se ne dovrebbe, dunque, concludere che il giudizio e l'immaginazione non possono mai essere contrari, e che l'abitudine non può agire su quest'ultima facoltà in modo da renderla opposta alla prima. Non si può ovviare a questa difficoltà altrimenti che adducendo l'influenza delle regole generali. Esamineremo in seguito alcune di queste, che dovrebbero servire di norma per i nostri giudizi concernenti le cause e gli effetti: esse si fondano sulla natura del nostro intelletto e sull'esperienza delle sue operazioni nei giudizi che formiamo sugli oggetti. Mediante tali norme impariamo a distinguere le circostanze accidentali dalle cause efficienti, e quando vediamo che l'effetto può essere ottenuto senza il concorso di una particolare circostanza, concludiamo che questa non fa parte della causa efficiente, per quanto a essa spesso unita. Ma poiché questa frequente unione a dispetto della conclusione opposta delle regole generali produce un qualche effetto sull'immaginazione, l'opposizione di questi due princìpi produce una contrarietà nei nostri pensieri, e c'induce a concludere in un modo col giudizio e in un altro con l'immaginazione: la regola generale l'attribuiamo al nostro giudizio, come quello ch'è più estensivo e costante, e l'eccezione l'attribuiamo all'immaginazione, come quella ch'è più capricciosa e incerta. D. HUME, Trattato sulla natura umana, 1739-1740
Nell'attimo in cui smaglia le catene del senso comune e sdrucciola negli anfratti dell'esperienza, la mente sperimenta la skepsis, uno sguardo che oltre a spaccare la crosta del dato ne provoca la krisis, il creparsi dal suo stesso interno.
È scettico infatti ogni sguardo che oltre a puntare le cose da fuori e sezionarle vi scivola dentro, nel buio che le pervade, dosando il rischio di smarrirsi nell'indistinzione di soggetto e oggetto. La scepsi è un vedere senza intenzionalità che, come la dinamite nella caverna, deflagra a piccoli tratti e scava in quello che impregna. Chi vi procede deve modulare cautamente l'implicita messa tra parentesi dell'abitudine stessa di dirsi un io. Scivolato sul verso dell'esperienza quanto basta per tornare al recto, lo scettico fa di sé la sonda lanciata dal presupporre il possesso della visione all'uso incerto che se ne fa tolto via il presupposto, dal rappresentabile al non intenzionale, dal recto al verso dell'esperienza, dall'abitudine come concetto, distillata, parcellizzata, all'abitudine come principio, carsica, omnicomprensiva.
Le questioni sollevate da Hume innescano questo tipo di deflagrazioni, sono domande che addirittura stridono con la parzialità d'interesse scaduta presto nell'aneddotica (Ami il biliardo? Soffri di sonno dogmatico? leggi Hume!), nelle questioni leziose degli specialisti (realism or skepticism? Was Hume a solipsist?) nel campanilismo di certi dibattiti (Hume sta con gli analitici o coi continentali?).
Le sue domande spiazzano. Perché ad esempio affermiamo che il sole sorgerà domani o che l'acqua bolle sempre a cento gradi dopo che il sole è sorto milioni di volte o che l'acqua è altrettante volte giunta a bollire a cento gradi? Chi è che può dire quali furono i suoi pensieri, le sue azioni al 1° di gennaio 1715, l'11 di marzo del 1719 e il 3 di agosto del 1733? Oppure, è sufficiente, per diventare proprietari di una città abbandonata, lanciare un giavellotto sulla porta, o occorre invece toccarla col dito? Fin dove si può essere proprietari di estensioni marine?
È innegabile quanto, nella stagione compresa tra Kant ed Hegel, si siano vagliate in profondità le ragioni di una posizione come questa di Hume. Non si dimenticheranno in questo senso le analisi magistrali dello scetticismo nella prima Critica di Kant e nella Fenomenologia Hegel così come, anche se meno note, le prospettive acute ed illuminanti di Schulze e di Maimon. Si sa d'altra parte quanto Kant stesso abbia riconosciuto a Hume meriti insuperabili, e tra questi la scoperta di un movimento connaturato al pensare, l'oltrepassare, su cui Heidegger innesterà la sua fortunata variazione, "si fa un 'passo oltre' rispetto ai possibili dati particolari e parziali dell'esperienza immediata – leggiamo in Kant e il problema della metafisica – Oltrepassando il sensibile questa conoscenza cerca di cogliere l'ente soprasensibile".
Si tratta del movimento implicito nelle affermazioni che hanno pretesa di universalità e di necessità relative ad eventi prevedibili ma non ancora verificatisi, lo stesso movimento con cui si inferisce trascendendo il dato e, al contempo, sulla scia di tale trascendimento s'inventano stati di cose futuri.
Ma resta che la complessità di tale movimento, l'innescarsi di un'inventiva proiettata al di là di ciò che c'è, si accompagna in Hume a un peculiare scivolamento al di qua. Scivolare, slipping inside, un altro movimento quindi che restituisce alle domande di Hume un po' dello spessore perso con le risposte formulate dopo di lui. Spessore prezioso, espressione della dimensione infraspeculativa del pensare, in cui l'esperienza sa interrogare sé ancor prima di essere interrogata da noi. Capitomboliamo con Hume, più che dai gradoni di una trascendenza inflazionatasi col tempo, dai dirupi dell'immanenza che resta da percorrere, sempre da pensare.
Si è meno scettici quando si dubita di una data conoscenza che non quando, come fa Hume, si revoca in questione ad ogni occasione la facoltà stessa di vagliare il darsi delle cose, quando viene meno la titolarità a procedere. La mente infatti non è un'istanza che procede, non è lui a far vacillare quello che reputava di sapere. E ciò non solo per il carattere inemendabile del dato quanto perché anche, col dato e nel dato, è proprio la mente a vacillare, in virtù dello stesso principio che la costituisce.
Hume radicalizza l'empirismo, innanzitutto nei procedimenti, nelle tattiche investigative attuate sul terreno dell'esperienza il quale, come da tradizione inglese, resta quello privilegiato dell'enquiry, attenta ai "capricci" dell'immaginazione non meno che alla costanza delle "regole generali". E nel radicalizzarlo lo scozzese eleva l'empirismo a sistema, ossia ad un'interezza che pur dispiegandosi caso per caso contiene dell'esperienzatutto il dispiegabile,gamme intere di movimenti investigabili o sperimentabili solo in via eccezionale. Sono i movimenti che fanno sussultare l'io fino a dissolverlo ma anche i movimenti che presiedono alla sua costituzione e al suo ricostituirsi a seguito di scivolamenti più o meno profondi.
In breve, l'empirismo diventa metafisica, risponde alla radicale esigenza di un principio. Per Hume "questo principio è l'abitudine" ed è dal suo terreno che la domanda filosofica affiora prima ancora del soggetto stesso che, germogliato sul medesimo terreno, la pone assecondandola, come a farvi stranamente già ritorno.
IV
Tutto questo è metafisica, voi esclamate. E basta questo e non c'è bisogno d'altro per darci una forte presunzione di falsità. Sì, rispondo, qui c'è certamente della metafisica; ma essa sta tutta dalla vostra parte, di voi che mettete avanti un'ipotesi astrusa che non può mai diventare intelligibile né concordare con qualche esempio o caso particolare. L'ipotesi che noi abbracciamo è semplice e sostiene che la moralità è determinata dal sentimento. D. HUME, Ricerca sui princìpi della morale, 1779
Per spiegare l'esperienza perveniamo a ipotesi la cui origine è rilevata da Hume, un po' come se tale origine gli si agitasse sotto i piedi, attraverso un inedito rilancio della problematica dell'archè, il "principio del tutto" cui si attinge per Platone "dialetticamente", non restando fermi cioè alle ipotesi ma considerando al contrario le ipotesi "nel senso reale della parola, punti di appoggio e di slancio per arrivare a ciò che è immune da ipotesi (anypotheton)" (Repubblica VI, 511a-c)
Il Problema che accomuna i due è la dinamica con cui si configura nel pensiero il prius, l'orizzonte non ipotetico del principio. Nonostante sia netta la differenza tra il sedimentarsi ctonio dell'abitudine in Hume e il dimensionarsi celeste dell'idea in Platone, in entrambe le prospettive si arriva all'anypotheton saggiandolo come inizio, come quel dinamismo specifico cioè con cui il principio fa ingresso nel pensiero e viceversa. Dell'inizio emerge da entrambe una parziale inafferrabilità, di cui è espressione l'impossibilità di avere una conoscenza della natura, del mondo di fuori, che non sia ipotetica e che possa quindi dirsi certa oltre il suo primo apparire.
La filosofia ha modo di mettersi sulle tracce dell'anypotheton, questo il portato ultimo delle due prospettive, proprio laddove vi sta già facendo ritorno, invertendo giocoforza il consueto rapporto col mondo di fuori. Se la natura è interrogabile, in altre parole, è perché ha già cessato di essere ciò che sembrava un momento prima. Ma mentre in Platone l'inizio fa venire meno la certezza del mondo avviando purtuttavia l'ascesa dell'anima alla verità "connaturata (syngenes)" dell'idea posta al di là, in Hume l'inizio produce nell'istanza che accedeva al mondo esterno (anima, io, soggetto) un contraccolpo tale da farla scivolare al di qua, dove tutto si risolve nell'esperienza e dove non c'è niente che all'esperienza non sia connaturato.
Messisi sulle tracce dell'anyphoteton, Platone e Hume si dirigono in questo modo verso una scaturigine situabile né più in basso né più in alto della physis quanto piuttosto al suo estremo oriente, nell'orizzonte da cui tutto risulta fare già enigmaticamente ritorno come logos, in forma d'ipotesi, di concetto, di espressione.
Il singolare movimento disegnato da Hume in questa direzione, lo scivolare, prolunga quello platonico su un'orbita talmente eccentrica che dall'ascesa, salvifica per l'anima, si passa rapidi alla caduta rovinosa. Se la novità di una filosofia si esprime nell'intensità di variazioni come questa, nella capacità di riconfigurare dinamismi collaudati, allora col suo platonismo precipitante Hume fa davvero qualcosa di nuovo. Solca particolarissime linee infraspeculative che si scoprono via via innervate nella dimensione speculativa in cui da sempre si tenta di pensare l'anypotheton.
Nella composita elementarità dello sguardo di un empirista, nelle traiettorie intraprendibili col movimento che gli più proprio, un inquieto scivolare, ritroviamo qualcosa di diverso dalle Unruhen dei dialettici. Un empirista come Hume non procede in rapporto costante all'idea, a un vertice speculativo che trascende l'esperienza e in cui secondo Platone "termina il processo" (511c 3). È per un dialettico infatti che il logos procede così, preso nel movimento ascendente della noesis antica o della Vernunft moderna, "distruggendo le ipotesi" (533c 8) – "superandole" à la Hegel – per trasfigurarle in un intero tanto più compatto nella theoria quanto più lontano da una physis votata viceversa alla frammentazione.
V
RASSOMIGLIANZA, CONTIGUITÀ nel tempo e nello spazio, CAUSA ed EFFETTO[…] Questi sono dunque i princìpi di unione o coesione fra le nostre idee semplici, e nell'immaginazione tengono il posto della connessione indissolubile, con cui sono unite nella memoria. Vi è dunque una specie di ATTRAZIONE, la quale, come si vedrà, si trova ad avere nel mondo mentale, non meno che in quello naturale, degli effetti straordinari, mostrandosi in forme non meno numerose e svariate. Tali effetti sono evidenti dappertutto; ma quanto alle sue cause, queste sono, per lo più, sconosciute, e non si può altro che guardarle come originarie della natura umana, che non ho la pretesa di spiegare. Non vi è cosa tanto necessaria a un vero filosofo quanto frenare il desiderio imperante di cercare le cause: una volta stabilita una dottrina su un numero sufficiente di esperimenti, egli deve arrestarsi soddisfatto, specie quando un ulteriore esame lo condurrebbe a speculazione oscure e incerte. In questo caso la sua indicazione sarà molto più opportunamente diretta a esaminare gli effetti del suo principio che non a cercarne le cause. D. HUME, Trattato sulla natura umana, 1739-1740
Più che nell'ansia di ricucire uno strappo, l'inquietudine dell'empirista sta nel non sapere esattamente verso dove scivola, nello slittare perlopiù da un lembo all'altro dell'esperienza, stando in bilico sui suoi bordi a considerare ogni ipotesi come il penultimo stocheion aggiuntosi, differente perché separato e separato perché differente. Prima dell'assunzione del termine toccato il quale il pensare inverte la rotta e risale, prima insomma che lo speculativo livelli e omogenizzi col suo sistema di chiuse i corsi dell'infraspeculativo, lo scivolamento è espressione sia dell'impossibilità di neutralizzare le anomalie dell'esperienza che scongiuriamo affidandoci alle idee come fossero statistiche favorevoli, sia del promanare di ogni anomalia dal medesimo alveo delle dinamiche più ragionevoli e comprovate.
Nello scivolare ne va dell'addestrarsi alla filosofia come del surfare su marosi d'ipotesi, concetti ed espressioni che rifluiscono dall'oceano del non ipotetico. Tra gli insegnamenti insuperati di Hume vi è anche questo, che il pensare debba muoversi sulle creste labili e insidiose dell'esperienza, oltre le quali precipitiamo senza neanche accorgercene. Nelle piccole catatonie quotidiane ad esempio, quando lo sguardo si perde fisso in un punto, nell'ascoltare una canzone, nel leggere, nel passeggiare o nello stare distesi senza fare nulla. Si scivola anche lì, e tornare in sé non è altro risalire le correnti dell'abitudine. Risalita obbligatoria, anche quando si va in profondità col pensiero. Nulla è chiuso allo stratificarsi e al dissodarsi dell'abitudine.
L'empirismo di Hume, in questo senso, fa apertamente i conti con un universo retto in tutto e per tutto dall'abitudine. L'uomo resta quel che si vede emergere sul piano della pura esperienza, senza preesistenza né sopravvivenza di sue ipostasi al di qua o al di là del piano. Ciascun io è l'agglutinarsi di elementi eterogenei, cementificati in un io più contemplativo e affabulato di quanto non si pensi, che è finzionale nell'esatta misura in cui è funzionale tanto alle esigenze più elementari quanto agli scopi più alti della vita pratica, dal respirare e nutrirsi al fare comunità ed essere felice passando per il comunicare e il relazionarsi. L'uomo di Hume è un prodotto dell'abitudine, una sua creatura, talmente strana da potersi dire libera solo nel riconoscervisi sottomessa. Questa schiavitù dalle tinte arcaiche richiama alla memoria la caverna platonica, rinarrandone tuttavia il mito in tono differente.
In Hume il pensiero sembra non obbedire sempre alla stessa logica e non transita in ogni caso dal quantitativo al qualitativo con l'obbligo di saturare nelle "regole generali" l'orizzonte in cui fino a un certo momento si è mosso. L'immaginazione produce infatti attrito, scivola ostinata nelle traiettorie che intraprende. Empirismo è investigare dall'interno la logica irriducibile della singola traiettoria, anche laddove la si giudica irrazionale. Immettervisi quindi, mantenerla senza negarla anzitempo, senza che un contraccolpo del pensiero ne fletta il moto su versanti tra loro opposti dell'orizzonte solcato. Un empirista sa quanto ciò possa snaturare il piano, laddove il pensiero cessi di scivolarvi per rappresentarselo e inevitabilmente trascenderlo.
VI
Consideriamo il caso di un uomo che, essendo sospeso in una gabbia di ferro dall'alto di una torre, non può fare a meno di tremare quando vede il precipizio aperto ai suoi piedi, benché sappia perfettamente di non cadere, per la sua esperienza della solidità del ferro che lo sostiene, e benché le idee di caduta e di discesa, di disgrazia e di morte, siano derivate unicamente dall'abitudine e dall'esperienza. Questa stessa abitudine va oltre gli esempi dai quali deriva, e con i quali è in perfetta corrispondenza, ed influisce sulle idee di oggetti in certo modo somiglianti, ma non soggetti precisamente alla stessa legge. Le circostanze di abisso e di discesa lo colpiscono così fortemente che la loro influenza non può essere distrutta dalle circostanze contrarie di sostegno e di solidità, che dovrebbero dargli una perfetta sicurezza. L'immaginazione si lascia trasportare dal suo oggetto, ed eccita una passione proporzionata; la passione, poi, riopera sull'immaginazione e ravviva l'idea; questa, ravvivata, influisce a sua volta sulla passione, e ne accresce la forza e la violenza; e così l'immaginazione e la passione insieme, sostenendosi a vicenda, fanno sì che il tutto abbia una grande efficacia su di lui. D. HUME, Trattato sulla natura umana, 1739-1740
Com'è la realtà vista così, dall'interno? Se quello rappresentabile riarticolando razionalmente le cose è un upside down, un universo capovolto, speculare a quello quotidiano, questo investigato da Hume è un patchwork, un universo in espansione, che assembla e prolunga il quotidiano con pezzi sempre nuovi.
L'abitudine è plurale, multipolare, più vi si scivola e più si scopre quanto non la si è pensata abbastanza. Il piano filosofico che la esprime s'inonda di elementi che vi fluttuano in sproporzionata controtendenza rispetto alla compattezza e all'organicità all'insegna delle quali pensieri, persone e cose sembrano razionalmente formarsi.
L'estendersi del piano, di qua dalle ipotesi e dai concetti che in esso si generano, non procede con lo stesso ritmo con cui si dispiega il suo orizzonte non ipotetico. Al rallentamento terminato nell'arresto dello scivolamento sul lato della physis fa seguito infatti un'inversione che ne immette il movimento su quello del logos. È così che il pensiero sin dall'inizio fa ritorno al piano, per ricomprendere l'orizzonte percors0 rappresentandoselo come un tutto la cui articolazione è pensabile via via che si risale il piano. Ora, nell'ottica speculativa la risalita è il movimento della ragione che ricuce l'ipotesi all'anypotheton muovendo verso l'alto, dall'empiria all'idea. Ciò postula non solo che le dinamiche della physis si riassorbano nel logos, atto a riportarle tutte sotto regole generali, ma anche che il logos sia improntato a priori alla ragione, prima cioè di concretarsi sulle scie della physis, ridotta da parte sua a dispensare la materia, il ricettacolo di idee preesistenti.
Nell'ottica infraspeculativa dell'empirismo risalire è un'esperienza strictu sensu. È sì attività del logos, ma il suo movimento non libera le idee dalla physis per sussumerle nel versante razionale del piano. Il logos non idealizza quindi l'esperienza ponendosi come un suo specchio inverante, contrapponendovisi fino a snaturarne le dinamiche.
Il logos risale qui il piano in diagonale, asseconda il rifluire della physis, ne cavalca le onde, concretizza la risalita non diversamente da come vi è scivolato, assemblando elementi che differiscono col variare dell'esperienza e che, nel singolo caso, arrivano a combinarsi differentemente a seconda che si scivoli o si risalga.
L'empirismo prende insieme recto e verso dell'esperienza, crea concetti come indici di continuità assoluta tra le due facce di un piano filosofico radicalmente immanente, che dell'esperienza è espressione diretta, assecondata e mai condizionata nei movimenti. L'empirismo non vi antepone nulla, né le idee né la ragione stessa.
I concetti di tale fattura sono risposte ipotetiche ai problemi che si configurano scivolando sul piano. Ogni concetto è formulato risalendo una linea percorsa e risolve perciò unicamente il problema che ne occasiona la creazione. Risponde alle domande del caso come l'ipotesi che ne esplicita il problema in linea col movimento implicato.
Un concetto è meno universale di un'idea. Ritagliato com'è su un caso non vi si ricorrerà per risolverne altri. Ma dà conto più dell'idea della necessità da cui nasce, dal matter of fact, che per Hume costringe fino in fondo a pensare. È questa necessità a pungolare l'empirista, ad articolare le logiche impossibili dei casi più insolubili. Ed è questa necessità a dirci quanto i movimenti che certi matters implicano non si riassorbano in quello della ragione o quanto sia ad esempio "difficile persino per un cieco – rileva Hume a proposito del poeta Blacklocke – essere un platonico perfetto".
Di qua dal colpo di coda con cui la physis trapassa nel logos come di là dall'intelaiare razionalmente dell'esperienza, la stoffa del piano resta un assommarsi di eventi in rapporto ai quale il vestito di Arlecchino è l'habitus che più si confà alla mente e alla realtà tutta. I matters sono drappi che si assommano contigui, trascinati dall'abitudine a confezionare l'io, una finzione che in Hume è moralmente salvifica.
Lo scozzese ha una vera e propria passione per il fortuito, la situazione limite, il caso a parte legato a doppio filo proprio col ragionevole e col comprovato. Casi non archiviabili che in lui diventano enigmi investigativi, che lo inducono a focalizzarsi più di quanto non si fa solitamente sui ritagli d'esperienza nei quali talvolta rischiamo di abbandonarci all'aberrazione, ad una serie di dinamiche cioè che senza soluzione di continuità sembrano allontanarci sempre più dal vero.
Di casi del genere Hume ne rileva tanti ma non vi si avventura tuttavia più di tanto. Questo non perché ricerca soltanto ciò che Kant nella Dottrina trascendentale del metodo bollerà come l'"appagamento scettico della ragione" né tantomeno perché, come affermerà Hegel nelle Lezioni sulla storia della filosofia, "non pensa secondo l'estensione che il suo pensiero avrebbe potuto raggiungere ed abbracciare".
Più che altro, Hume sa bene che non è continuando a scivolare che troverà le risposte alle sue domande o il senso stesso del filosofare. Per questo motivo, lo snaturamento stesso del piano arriverà ad imporglisi come una necessità morale.
VII
Tutti gli oggetti della ragione e della ricerca umane si possono naturalmente dividere in due specie, cioè relazioni di idee (relations of ideas) e materie di fatto (matters of fact). Alla prima specie appartengono le scienze della geometria, dell'algebra e dell'aritmetica; e, in breve, qualsiasi informazione che sia certa intuitivamente o dimostrativamente. Che il quadrato dell'ipotenusa sia uguale al quadrato dei due cateti è una proposizione che esprime una relazione fra queste figure. Che tre volte cinque sia uguale alla metà di trenta esprime una relazione fra questi numeri. Proposizioni di questa specie, si possono scoprire con una semplice operazione del pensiero, senza dipendenza alcuna da qualche cosa che esiste in qualche parte dell'universo. Anche se non esistessero in natura circoli o triangoli, le verità dimostrate da Euclide conserverebbero sempre la loro certezza ed evidenza. Le materie di fatto, che sono la seconda specie di oggetti dell'umana ragione, non si possono accertare nella stessa maniera, né l'evidenza della loro verità, per quanto grande, è della stessa natura della precedente. Il contrario di ogni materia di fatto è sempre possibile, perché non può mai implicare contraddizione e viene concepito dalla mente colla stessa facilità e distinzione che se fosse del pari conforme alla realtà. Che il sole non sorgerà domani è una proposizione non meno intellegibile e che non implica più contraddizione dell'affermazione che esso sorgerà. Invano tenteremo, dunque, di dimostrare la sua falsità; se essa fosse falsa dimostrativamente, implicherebbe contraddizione e non potrebbe mai esser distintamente concepita dalla mente. D. HUME, Ricerca sull'intelletto umano, 1748
Hume sembra averci visto più lungo di tanti suoi successori, innanzitutto perché è penetrato nella dimensione speculativa dell'esperienza. Vi è scivolato e ne è riemerso sondandola. Non evita di fissare opportunamente nella contraddizione il termine in cui lo scivolamento deve arrestarsi per permettere al pensiero di tornare indietro. In breve, Hume ha avuto formidabile contezza di quanto aberrante e pericoloso possa diventare per gli uomini il protrarsi illimitato di certi movimenti del pensiero.
Se lo scivolamento deve incontrare un termine, se bisogna confinarlo, questa la verità per molti versi insuperata di Hume, è proprio perché può andare oltre, persino al di là della contraddizione. E spingendosi oltre può continuare a solcare l'infraspeculativo, rischiando sempre più di compromettere la tenuta dell'io.
Si comprende allora perché proprio lui, che questo rischio lo ha colto, decida di saggiarlo solo in parte, frenando il movimento in discesa del "filosofo che partecipa in qualche modo al desiderio del sapere", del soggetto conoscitivo del Trattato (1739-1740) e della Ricerca (1748), proprio per tornare indietro e salvare "l'uomo che agisce", il soggetto morale al centro delle opere più mature, dalla Ricerca sui principi della morale ai Dialoghi sulla religione naturale (usciti postumi nel 1779) passando per la Storia dell'Inghilterra (1754-1761) e i Discorsi politici (1752)
Oltre alla proporzione tra opere gnoseologiche ed opere dedicate alla dimensione morale, sociale e culturale dell'uomo (religione, storia, diritto, politica), che testimonia di per sé quanto in effetti Hume abbia puntato tutto sull'agire anziché sul conoscere, un segno non meno rivelativo della sua decisione, lo si ritrova già nel primo tipo di opere. E non potrebbe essere altrimenti, va aggiunto, dal momento che questa di Hume è una decisione radicata nella theoria, da cui conoscenza e morale promanano concentricamente. Una decisione condensata tutta nel suo sguardo, nella sua scepsi, decisa nell'aprire, forte nell'anticipare e potente nel trascinare. Una decisione la cui coerenza e la cui radicalità danno la misura perspicua dell'incidenza storica della filosofia di Hume, del suo profondo glimpse e di una scelta morale per l'uomo che non smette di riflettersi in ogni singola pagina.
Nella Ricerca del 1748 tutto ciò si avverte subito e altrettanto rapidamente si adombra. In un solo istante Hume scruta lo stagliarsi del principio nell'orizzonte di "tutti gli oggetti della ragione e della ricerca umane" e, come se da lì in poi il colpo d'occhio della scepsi procedesse in obliquo, taglia dall'alto in basso l'orizzonte nei due dominî delle relations of ideas e dei matters of fact.
Tale sezionamento, che distingue due tipi di oggetti in virtù del loro differente rapportarsi alla contraddizione, risente di un fisiologico abbarbicamento della mente in se stessa, di cui Hume è consapevole e da cui non ha alcuna intenzione di sottrarsi.
Proprio perché muove dall'essere un io fra altri, costitutivamente orientato sul common sense, Hume fa i conti fino all'ultimo con questa condizione strutturale. Scopre quindi che la verità dell'uomo non gravita esclusivamente nel dominio delle relations of ideas, non è solo della natura della verità deducibile sillogisticamente, non si riduce alla logica più comprovata. Ciò innanzitutto perché le domande che lo riguardano e ne rilevano la problematicità balzano piuttosto nel dominio dei matters of fact. È l'inestirpabile contraddittorietà di quest'ultimo a materiare gli intrichi dell'infraspeculativo, e pertanto le prove richieste al pensiero dal problema dell'io saranno altre, molto più incerte di quelle relative alle relations of ideas.
VIII
Pretendete invano di aver imparato a conoscere la natura dei corpi dalla vostra esperienza passata; la loro natura segreta, e per conseguenza tutti i loro effetti e la loro influenza, possono cambiare, senza che si verifichi alcun cambiamento nelle loro qualità sensibili. Ciò accade a volte riguardo a certi oggetti; perché non potrebbe accadere sempre riguardo a tutti gli oggetti? Quale logica, quale processo di argomentazione vi assicura contro questa supposizione? La pratica che ho, voi rispondete, confuta i miei dubbi. Ma voi fraintendete il tenore della questione che pongo. Come uomo che agisce io sono pienamente soddisfatto dell'argomento; ma come filosofo, che partecipa in qualche modo al desiderio del sapere, per non dire allo scetticismo, ho bisogno di conoscere il fondamento di questa inferenza. D. HUME, Ricerca sull'intelletto umano, 1748
Si tratta con Hume di sperimentarsi come soggetti, ammantati d'impossibilità, saettati in men che non si dica nel dominio dei matter of facts. Impossibilità di giungere all'anyphoteton senza muovere dal vincolo dell'ipotesi, ma anche impossibilità di pensare indiviso il principio, di qua cioè dall'averlo in qualche modo assunto, di essersene fatti già carico con una decisione che è poi il filosofare stesso e che in Hume si concretizza, come visto, nell'impatto inaggirabile con l'abitudine.
Cronicamente sbilanciato su un solo versante del piano che la diagonale discendente del filosofo ha tagliato in due, l'io non può contenerne con la sua theoria l'orizzonte proprio perché, così deciso il piano, viene meno l'ipotesi stessa di potersi fare carico di un pensiero che non sia il proprio. Ma se l'orizzonte, nella sua incontenibile interezza, non potesse davvero fare ingresso nel pensiero da una sola delle parti in cui Hume lo ha diviso – quella che lui chiama mind – non si spiegherebbe come anche un solo soggetto possa interrogarsi su di esso. Ma questo soggetto risulta esserci, essendosi dato se non altro nella persona di David Hume.
La diagonale sembra a questo punto veicolare, tanto in lui quanto in chi tenta di riprodurne o di variarne il tono, qualcosa che non smette di pungolare la mente, un'irrappresentabile alterità radicata al suo interno, un elemento che nella mente forse non si riduce a ciò a cui tanta filosofia fa tuttora riferimento parlando di mind.
Forse la vera difficoltà con Hume è muoversi sulla linea di quest'aporia ancor più che sulla falsariga di una qualsiasi delle posizioni storicamente attribuitegli. Non bisogna "fraintendere il tenore della domanda" posta da Hume ed ammettere soltanto l'indimostrabilità del risalire abituale da una serie di effetti a cause che si scoprono improntate "sull'esperienza passata". Si tratta soprattutto di tastare quant'è impossibile pensare il principio, la "natura segreta" dell'abitudine, senza essere già scivolati via da esso, ritrovandoselo sulla testa, alle spalle, sotto i piedi.
Allo stesso tempo però, un certo fraintendimento resta l'espediente più opportuno se ci si vuole muovere in linea con Hume e non pedissequamente sulla sua falsariga. Chiedersi ad esempio se Hume abbia fallito o meno compromette tanto una sintonizzazione sulla diagonale che ha indicato quanto un prolungamento della sua traiettoria. Cosicché, laddove si osservasse Hume dal punto di vista di Kant o da quello di Hegel, per quanto se ne intenderebbero meriti e demeriti riconosciutigli o attribuitigli, resterebbe nell'ombra la sua decisione di principio.
Quest'ultima s'impone d'altro canto come l'elemento su cui insistere al di qua di ogni prospettiva, un radicale decidersi per il principio quindi, in virtù del quale Hume ha aperto e portato avanti il suo discorso. È dal centro allora che il discorso va colto, dal "pungolo" (kentron in greco, da cui la parola "centro") che assilla Hume, dall'inquietudine metafisica che ritma silenziosa il pensiero del moralista intrepido, dall'intensità vertiginosa che, slabbrata la pagina scritta, si fa largo fra le righe a rigenerare la tensione dell'inizio, della decisione all'opera da ancor prima della prima pagina e che fa del discorso di Hume qualcosa d'interminabile.
Non ci si addentrerà sul piano tracciato dallo scozzese se non immettendosi quanto basta sulla diagonale che, continuando ad attraversarlo, fa sì che non si arresti il tracciamento delle sue coordinate. Esse dipanano da un centro che sembra scivolare dall'alto in basso assieme alla diagonale, in uno spazio che si amplia anziché chiudersi. Sintonizzatosi sul piano di Hume, quanto più il pensare scivolerà inclinandosi col piano tanto più soppeserà gli effetti del suo insistervi e persistervi.
IX
Quando dunque sono stanco di divertimenti e della compagnia, o mi sono indugiato in fantasticherie nella mia camera o in una passeggiata solitaria in riva al fiume, io sento che la mia mente si raccoglie in se stessa e tende naturalmente a prendere in considerazione tutti questi argomenti che ho visto soggetti a tante dispute nei libri e nelle conversazioni. Io non posso proibirmi la curiosità di conoscere i princìpi morali del bene e del male, la natura e il fondamento dei governi, la causa di tante passioni che mi muovono e governano: mi sento a disagio pensando che io approvo una cosa e ne disapprovo un'altra, chiamo una bella e l'altra brutta, giudico del vero e del falso, della ragione e della follia, e ignoro i princìpi su cui mi fondo in ciò. Provo interesse alla condizione delle persone colte, che tuttavia giacciono in tale deplorevole ignoranza di tutte queste cose, e sento sorgere in me l'ambizione di contribuire all'istruzione dell'umanità, e di acquistare un nome con le mie invenzioni e scoperte. Questi sentimenti affiorano naturalmente nella mia presente disposizione, e s'io mi sforzassi di bandirli applicandomi ad altri affari o diversivi, sento che ci perderei dal lato del piacere. Questa è l'origine della mia filosofia. D. HUME, Trattato sulla natura umana, 1739-1740
L'impossibilità su cui è incentrato il discorso di Hume è restituibile nella misura in cui se ne faccia esperienza acquisendo sempre più consapevolezza di quanto il movimento implicato in quest'esperienza sia potenzialmente interminabile. Sperimentarla tutta, quest'impossibilità, si fa rischioso nel momento in cui persistendovi si minano non solo i capisaldi dell'agire ma anche le fondamenta dell'identità personale, senza che degli uni e delle altre rimanga più nulla di restituibile. È mantenendosi ai bordi di quest'impossibilità che s'intravvedono la portata e gli effetti della filosofia di Hume. Portata ed effetti su cui tornare a riflettere, ed è difficile, a prescindere non solo dal nostro leggere Hume a partire dai pensatori successivi, ma anche dagli esiti, dall'opera rispondente al suo nome e dalla storia alla quale è consegnata. A guardare questo filosofo da angolature a cui siamo poco avvezzi, in altre parole, affiora immitigabile il sospetto accennato prima e cioè che coloro che lo hanno superato non ci abbiano visto altrettanto lungo.
Il tenore del suo discorso, non meno che da dove lo si guarda o se ne ode il tono, si addensa nella decisione di sezionare l'orizzonte in dominii differenti per natura. Una decisione, questa di Hume, facente leva sullo sforzo di rappresentarsi un principio che nella sua interezza è irrappresentabile e che si dà tutt'al più come il fulgore di tutto l'essere, che un attimo dopo non c'è più, che invade il pensare giusto il tempo di lasciargli intuire di essere una cosa sola con esso. L'abitudine è così prepotente proprio perché ce n'è sempre di più all'inizio che non dopo, quando ce la si è rappresentata. È solo un attimo dopo averne colto la portata che, più misuratamente, Hume può non solo assumerla come certa in modo da garantire o revocare in questione le certezze presunte ma anche, e più alla radice, determinarne il concetto, darle il nome che ha, tracciare le coordinate della sua pensabilità e lottizzarne l'estensione in rapporto a degli scopi e a delle motivazioni. Hume procede in tutto questo da empirista, ad ogni matter of fact, inscena cosa accadrebbe se il pensare non ammettesse l'abitudine, entrando quanto basta nel dettaglio di situazioni fuori dal normale, spiazzanti e paradossali, proprio come le domande da cui prende le mosse.
What if? E se la mente, torniamo in fondo a chiederci con Hume, persistesse su una delle molteplici linee che, schizzate via da una stessa origine, la conducono nelle zone più impervie del terreno dell'abitudine? I matter of facts impongono problemi mai visti, non padroneggiabili da subito, innanzitutto perché sopravanzano le soluzioni note, le risposte che esaurivano scenari pregressi senza assurgere a regole generali.
Un problema ha così il potere di coinvolgere il soggetto immettendolo su linee perlopiù inesplorate, come se la mente piombasse per la prima volta nel loro centro e si spiazzasse da sola, perdendo i punti di riferimento, fino a scivolare via dal quello stesso centro e portarselo oltremodo con sé, trascinandoselo dietro.
Più i pensieri scivolano dal centro, al quale restano aggrappati finché possono, e più è impossibile per la mente riguadagnare equilibrio, tornare ad essere di qualcuno, dell'io inizialmente coinvolto nel matter of fact e scivolato poi lungo una linea fatale.
X
La morale è un argomento che ci interessa più di ogni altro: ci immaginiamo che in ogni decisione che la riguarda ci sia in gioco la pace della società ed è evidente che questa preoccupazione deve far apparire le nostre speculazioni più reali e più solide di quando l'argomento ci è in larga misura indifferente. Quando qualcosa ci colpisce, concludiamo che non potrà mai essere una chimera e, nel momento in cui la nostra passione viene coinvolta da un lato o dall'altro, pensiamo naturalmente che la questione sia alla portata della comprensione umana, cosa che in altri casi della stessa natura siamo inclini a dubitare. D. HUME, Trattato sulla natura umana, 1739-1740
Hume va riassegnato a un'aporia che non è solo sua, al fondo smisurato dell'impossibilità che ha saggiato. Nel risalire, Hume crea concetti in risposta ad asperità ed impedimenti provenienti da quest'aporia, dall'abisso dell'abitudine.
Pur rimanendo l'abitudine segreta, sia a lui che a noi, forse una luce gettata sulla difficoltà estrema di pensarla ci farà comprendere di più quanto Hume abbia saputo rendersi con la propria filosofia custode del segreto. E quanto spazio lo scozzese sia così riuscito ad aprire tanto al proprio discorso quanto ad una serie di sviluppi che non vanno limitatati alla sola filosofia, né tantomeno solo al periodo a lui successivo, dalla sociologia al diritto, solo per fare alcuni esempi, al pensiero di Ravaisson, James, Bergson e Deleuze, passando per i romanzi di Asimov e Dick, la tetralogia di Matrix e le serie televisive come Lost, Dark e 1899.
Scivolare nell'aporia, perlustrarne anche i gangli ma risalire ogni volta è la massima con cui Hume instaura il piano della sua filosofia, nella quale la morale viene anteposta alla conoscenza con una decisione, che per ponderatezza, lungimiranza e ricadute precorre quella con cui Kant "abolisce il sapere per far spazio alla fede".
La conoscenza del mondo là fuori è sospesa ma possiamo, anzi dobbiamo attendere, come Sally in Don't look back in anger. La sospensione, tra l'ostinato dell'immaginazione, l'armonico dell'idea e l'eco del concetto, in Hume è movimento. È il glissando su superfici frastagliata, lo stridore che costringe a pensare, l'attrito che è poi il darsi stesso della domanda filosofica. Dall'incertezza in cui si scivola bisogna per Hume fare ritorno, procedere ad una casistica dell'abitudine e delle sue dinamiche. Dell'immaginazione, della credenza, di quanto ci rende soggetti nel corso di un'esperienza frammentaria, inconclusa, perciò sempre nuova e da circostanziare.
Col suo centro mobile infatti, l'esperienza amplia via via il suo orizzonte, offre un di più di percorribilità che sopravanza quanto i pensieri e le azioni hanno coperto.
Quest'orizzonte contiene l'intero movimento percorribile, che tuttavia è già troppo per il pensare. Va perciò deciso, tagliato in due su di un piano che isoli, in funzione di un fine, il movimento possibile rispetto quello impossibile a cui all'inizio è unito.
Il gesto instauratore di una filosofia sta tutto in questo radicale decidersi del pensiero, e Hume lo mostra più di altri insistendo sapientemente sulla linea del taglio attuato, nel ribadire il fine morale del suo discorso e nell'invitarci a tenere sempre conto del "tenore" delle domande che s'impongono sul piano che sta investigando.
Non è tanto per una tendenza della natura a nascondersi che l'abitudine rimane per Hume segreta, quanto per la pretesa tutta nostra di renderla integralmente intellegibile. Siamo noi che trascuriamo fino a che punto ne siamo dipendenti.
Del segreto dell'abitudine Hume si fa carico come a farsi responsabile di una totalità che si costituisce nella misura in cui si dissolve anche. Una responsabilità da lui assunta da un lato attenendosi alla decisione presa e dall'altro mantenendosi al centro di una diagonale che si traccia da sé ininterrottamente, prima ancora di essere captata dai filosofi. Da Hume anche, che un istante prima d'ipotizzarla come soglia tra fatti e idee l'ha già vista attraversare ogni cosa. Tutti d'altronde vi insistiamo in misura più o meno intensa. La solchiamo spinti da varie tendenze che, come mostra Hume, non ci fanno avvertire che stiamo perdendo quota sotto la minaccia delle contraddizioni che si addensano all'orizzonte. Non ci accorgiamo di quanto è lungo la stessa linea che si scivola sempre più giù, verso non si sa quale abisso.
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Deleuze
Il pensiero concettuale filosofico ha come presupposto implicito un'Immagine del pensiero, prefilosofica e naturale, tratta dall'elemento puro del senso comune. Secondo questa immagine, il pensiero è affine al vero, possiede formalmente il vero e vuole materialmente il vero. E su questa immagine ognuno sa, si presuppone sappia, cosa significa pensare. Poco importa allora che la filosofia cominci con l'oggetto o col soggetto, con l'essere o con l'essente, finché il pensiero resta sottoposto a questa immagine che pregiudica già tutto, tanto la distribuzione del soggetto e dell'oggetto, quanto l'essere e l'essente. Questa immagine del pensiero può essere definita immagine dogmatica o ortodossa, immagine morale.
G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, 1968
Il piano di immanenza non è un concetto, né pensato né pensabile, ma l'immagine del pensiero, l'immagine che esso si dà di cosa significhi pensare, usare il pensiero, orientarsi nel pensiero... Non è un metodo, poiché ogni metodo riguarda eventualmente i concetti e suppone una tale immagine. Non è neanche un'insieme di conoscenze sul cervello e sul suo funzionamento, poiché il pensiero non è riconducibile al lento cervello come se fosse uno stato di cose scientificamente determinabile, in cui esso si limita a effettuarsi, quali che siano il suo uso e il suo orientamento. Non si tratta neanche dell'opinione che si ha del pensiero, delle sue forme, dei suoi scopi e dei suoi mezzi in questo o quel momento [...] Si direbbe che IL piano di immanenza sia contemporaneamente ciò che deve essere pensato e ciò che non può essere pensato. Esso sarebbe dunque il non pensato nel pensiero. È lo zoccolo di tutti i piani, immanente a ogni piano pensabile che non riesce a pensarlo, la parte più intima del pensiero e al tempo stesso il suo fuori assoluto. Un fuori più lontano di ogni mondo esterno, perché è un dentro più profondo di ogni mondo interno: è l'immanenza, "l'intimità come Fuori, l'esterno trasformatosi nell'intrusione che soffoca, nel capovolgimento dell'uno e dell'altro" (Blanchot). Andata e ritorno incessante del piano, movimento infinito. Forse è il gesto supremo della filosofia: non tanto pensare IL piano di immanenza, quanto mostrare che esso è là, non pensato in ogni piano.
G. DELEUZE, F. GUATTARI, Che cos'è la filosofia, 1991
UN CONTRAPPUNTO di Fabio Treppiedi
COGENZA DELL'IMMAGINE
L'anima non pensa senza immagini
Aristotele, De anima, 431a 17-18
Ancor meno ci si deve attendere qui una critica dei libri e dei sistemi della ragion pura; ciò che dobbiamo aspettarci, piuttosto, è la critica della facoltà pura, come tale, della ragione. Soltanto se ci si fonda su questa critica, si può possedere una sicura pietra di paragone per valutare il contenuto filosofico di opere critiche e recenti in questo ramo. In caso contrario, storici e giudici incompetenti valutano le asserzioni infondate di altri attraverso le loro proprie asserzioni, che sono altrettanto infondate.
Kant, Critica della ragion pura, introduzione, sez. VII
L'immagine che ci si fa del pensiero (di cosa significhi pensare, di quali siano i suoi fini e i suoi mezzi) impedisce di iniziare a pensare veramente. È, questa, una vera e propria questione di principio, un'aporia quanto mai insidiosa nel suo indurci a mancare il problema cui si riferisce come se, scoccate più frecce una dopo l'altra, mancassimo sistematicamente il bersaglio. Se è fuorviante infatti assumere i problemi a partire dalle soluzioni e i principî a partire dai concetti che vi rispondono, non lo è meno concepire l'immagine del pensiero a partire dai suoi effetti, dal momento che essa è inaggirabile: non possiamo evitare di darci, prima d'iniziare a pensare, tutta una serie di presupposti.
Si dà quindi un indomabile presupporre che finisce col rendere indisponibile al pensare quanto necessario per iniziare a muoversi. Non meno indomabile e fuorviante sarà inoltre supporre che "lottare rigorosamente contro" quest'immagine e "criticarne radicalmente i presupposti", come scrive Deleuze, debbano di necessità condurre al suo superamento e al suo tramonto. L'iconoclastia suggeritaci può funzionare solo nel suo essere fuorviante, nella misura in cui cioè quanto più si manca il bersaglio tanto più si è fuori strada, o meglio, sulla strada del "Fuori" (il dehors di Blanchot): si tratta pur sempre di una strada, anche se non si era previsto d'intraprenderla. È il sentiero di un'esteriorità assoluta che l'immagine impedisce di cogliere ma che tuttavia non si situa al di fuori di essa, dal momento che l'altro da sé che l'immagine impedisce di pensare comunque non esisterebbe senza di essa. Questo limite si impone lì, sulla strada verso cui l'immagine ci ha fuorviati, come l'obbligo di ridefinirne la questione. Di chiederci cioè se l'immagine si limiti a sua volta ad impedire di pensare altro da ciò che concede e se, quindi, il limite stia lì soltanto come un impedimento.
Ci viene a questo punto in soccorso Kant, che al paragrafo 57 dei Prolegomeni propone una doppia accezione di limite; da un lato Grenze, cioè limite che "suppone sempre uno spazio che si trova all'esterno di un determinato luogo ma che, al contempo, include questo luogo", dall'altro Schranke, cioè limite costituito soltanto da "negazioni che si impongono su una cosa nella misura in cui questa non possiede un'integralità tale da poter superare la negazione che si impone". Se nella prima accezione il limite configura una sogliao unafrontiera, nella seconda si parlerà più di confine,ostruzioneoblocco. La prima delle due figure possiede allora anche una funzione non meramente negativa, nella misura in cui una soglia o una frontiera possono sempre fungere anche da ostruzione e da blocco mentre questi ultimi - presi ipoteticamente per sé - resteranno soltanto ciò che sono.
L'immagine è kantianamente Grenze ossia quel limite del pensare che è sì un concetto storicamente dato ma che è anche un principio nel suo darsi più aporetico. Se al contrario ci limitiamo a intendere l'immagine soltanto come Schranke, quasi a pretendere di concepirla senza effettivamente pensarla, essa resta un concetto svuotato di senso o un mero dato, materia degli "storici e dei giudici incompetenti" evocati da Kant nell'introduzione alla prima Critica.
L'immagine del pensiero è Grenze e non Schranke, dal momento che funge sia da limitechedaconfine, così come anche da principio e al contempo da determinazione parziale del principio stesso in forma di concetto. Essa è soprattutto possibilità di pensare il suo fuori e impossibilità di pensarlo al di fuori.
L'ipotesi di un aut aut tra l'immagine come Grenze e l'immagine come Schranke realizzerebbe di per sé qualcosa contro cui, posta la questione di principio, si dovrà combattere davvero ossia la possibilità di un'immagine che sia soltanto Schranke. Nemica del pensare non è l'immagine stessa quindi, anche se per comprendere ciò bisogna paradossalmente farsi fuorviare da essa.
Da cosa potrebbe infatti determinarsi il concetto d'immagine del pensiero se non da un "piano d'immanenza" o, che è lo stesso, da tutto il "problematico", il "determinabile" e quindi da tutto il questionabile rappresentato dal principio stesso? In breve, l'immagine del pensiero sarà solo un concetto - il cattivo concetto di un'immagine cattiva, poiché funge solo da Schranke -se da essa non ci si sarà lasciati fuorviare o se di essa non si è fatta una questione di principio. L'immagine del pensiero è un concetto fra altri solo per un pensare disattento alle questioni di principio, per una filosofia che pensando a partire dai principi si sbarra la strada all'indietro, che sta ad essi essendoseli già da sempre lasciati alle spalle senza mai pensarli fino in fondo.
Concetto non più concepito, sbalzato fatalmente al di là del principio, l'immagine del pensiero come Schranke è una nozione che trascende il piano in cui ha modo di muoversi. Ma d'altro canto è solo quest'ultimo piano quello in cui gravita ogni pensatore che considera il principio nella sua più assoluta immanenza. Anche in Deleuze l'immagine non può che essere una, tanto nel suo potere oppressivo, che in Differenza e ripetizione risulta preziosamente fuorviante, quanto nella sua inesauribile potenza, quanto mai esplicita in Che cos'è la filosofia? Sia nel primo che nel secondo caso, l'immagine del pensiero disegnerà in un solo e medesimo orizzonte, quello in cui essa non può che essere sia Grenze che Schranke, sia principio che concetto.
Le distruzioni alle quali, sulla scorta di Nietzsche, si richiamano Deleuze ed altri contemporanei realizzano, più che una mera iconoclastia (come se quella contemporanea fosse l'era punk della filosofia), il più rinnovato tentativo di essere uno con ciò che di più non ipotetico si dà nel pensare, con quell'anypotheton che Platone considera raggiungibile solo "distruggendo le ipotesi (tas hupoteseis anairousa)" (Repubblica 533c 8). La domanda che esprime più profondamente la questione di principio da Deleuze è d'altro canto la stessa che anima anche, solo per fare i due esempi citati in esergo, Aristotele e Kant: come fa il pensiero a convivere con questa sua fisiologica potenza di produrre immagini?
Rispetto a potere e potenza dell'immagine del pensiero, pertanto, risultano decisivi i modi in cui la filosofia esprime il rapporto necessario tra i due aspetti. Modi o piuttosto stili, quelli della filosofia, che testimoniano di una cogenza dell'immagine in virtù della quale il gesto di ciascun filosofo prende forma nell'"andata e ritorno incessante" dall'uno all'altro dei due aspetti.

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