SUB SPECIE FABULATIONIS 

"Consideriamo allora, nel campo vagamente e senza dubbio artificialmente delimitato dell'immaginazione, il taglio naturale che abbiamo chiamato fabulazione e vediamo di che cosa può ben occuparsi naturalmente. Da questa funzione dipendono il romanzo, il dramma, la mitologia, con tutto ciò che la precedette. Ma non ci sono sempre stati romanzieri e drammaturghi, mentre l'umanità non ha mai fatto a meno della religione. È dunque verosimile che poemi e fantasie di ogni genere si siano aggiunti, approfittando del fatto che lo spirito sapeva fare delle favole, ma che la religione era la ragion d'essere della funzione fabulatrice: rispetto alla religione, questa facoltà sarebbe effetto e non causa. Un bisogno, forse individuale, in ogni caso sociale, ha dovuto esigere dallo spirito questa specie di attività. Domandiamoci qual era il bisogno. Bisogna notare che la finzione, quando è efficace, è come un'allucinazione nascente: può controbilanciare il giudizio e il ragionamento, che sono le facoltà propriamente intellettuali. Ora, come doveva operare la natura, dopo aver creato esseri intelligenti, per rimediare ad alcuni danni dell'attività intellettuale senza compromettere il futuro dell'intelligenza? L'osservazione ci fornisce la risposta. Oggi, nella piena fioritura delle scienze, vediamo i migliori ragionamenti crollare davanti a un'esperienza: niente resiste ai fatti. Se dunque l'intelligenza doveva essere trattenuta al principio su una china pericolosa per l'individuo, questo non poteva avvenire che mediante constatazioni apparenti, mediante fantasmi di fatti: in mancanza di un'esperienza reale, bisognava suscitare una contraffazione dell'esperienza. Una finzione, se l'immagine è viva e ossessiva, potrà precisamente imitare la percezione e, per questo, impedire o modificare l'azione. Un'esperienza sistematicamente falsa, presentandosi all'intelligenza, potrà fermarla nel momento in cui andasse troppo lontano nelle conseguenze che trae dall'esperienza vera [...] se se ne considera la direzione, si sarà meno colpiti da ciò che la tendenza ha d'irrazionale, e se ne capirà forse l'utilità. Chi sa, anzi, se gli errori a cui essa è giunta non siano le deformazioni, allora vantaggiose per la specie, di una verità che doveva apparire più tardi ad alcuni individui? Ma non è tutto. Da dove viene questa tendenza? Si riallaccia ad altre manifestazioni della vita? Abbiamo parlato di una intenzione della natura: era una metafora, comoda in psicologia come lo è in biologia; sottolineavamo così che il dispositivo osservato serve l'interesse dell'individuo e della specie. Ma l'espressione è vaga, e diremmo, per maggiore precisione, che la tendenza considerata è un'istinto, se non fosse proprio al posto di un'istinto che sorgono nello spirito le immagini fantastiche di cui trattiamo. Esse svolgono un ruolo che avrebbe potuto essere attribuito all'istinto e che lo sarebbe in un essere sprovvisto d'intelligenza. Diciamo provvisoriamente che è un istinto virtuale, intendendo con questo che all'estremità di un'altra linea di evoluzione, nelle società degli insetti, vediamo l'istinto provocare meccanicamente una condotta paragonabile, per la sua utilità, a quella che suggeriscono all'uomo, intelligente e libero, delle immagini quasi allucinatorie". 
                                                                               H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione, Cap. II  


FABULAZIONI.IT più che un progetto è lo spioncino aperto su una fucina di concetti, sull'officina di chi ne popola le pagine con parole che sanno di primordi del pensiero, di visioni e memorie in statu nascendi, di suoni in fuga dal silenzio e di bagliori intermittenti nella tenebra. Parole che sanno d'inizio, insomma. Ogni progetto tende da parte sua ad un fine, ma ogni fine rifluisce inevitabilmente sull'inizio fino a stringerne a sé il cuore ed affogarne lo slancio. Di contro a tutto ciò FABULAZIONI.IT costituisce piuttosto una piattaforma di sabotaggio dei fini, un catalogo dello sfinimento. Pagine orfane di progetto sin dall'inizio quindi, che si fanno inizio e raccontano una passione per i principî, una filosofia del principio. Sperimentato nella sua inconcludenza, ogni principio balenerà come SCHEMA: nient'altro che un segno del pensare, l'arabesco disegnato dal bulino di un immaginare affilato nella mola della speculazione e al tempo stesso il cerchio tracciato dal compasso di un ragionare che affonda l'ago nei modi del racconto per circoscriverne gli intrecci.

Nel teoretico repertoriare tali schemi si è soliti cominciare dall'archè, la parola greca che narra l'inizio della filosofia: la Ionia, Talete, la meraviglia, l'acqua. Un che d'immaginifico ammanta quest'inizio e lo rende una fabula in cui i contorni del tempo, dei luoghi, dei protagonisti e delle parole sfumano di pari passo con l'emergere granitico dell'intreccio, del dramma di sapere il principio in una folgorante intuizione - di "assaporarlo" dirà Nietzsche a proposito di Talete - e dirlo tuttavia sotto forma d'altro, nelle immagini di acqua, di terra, di aria, di fuoco o in quelle meno materiali ma pur sempre riflesse d'indefinito, di numero, d'idea e, da ultimo, di archè. Anche così si sperimenta un sapere, nel suo rifrangersi al limite del non sapere, del non saperlo tutto. In fondo, la filosofia non l'ha mai fatta finita col principio, con gli inizi compiuti e con quelli mancati.

Scorti sub specie fabulationis, i principî si fanno misura di un vivere in schermaglia smisurata col pensare, proprio mentre il morire diventa l'appassionante fictio di una fine sempre troppo ingombrante. Quando si tenta di pensare davvero, ci si sforza d'altronde di sgombrare il campo dalla fine, di espungerla ogni volta, lì dove la prova più grande diventa risalire alle spalle di ogni prima

E può darsi che, a chi è sul punto di muovere per il mondo di là, sia bene, a preferenza di tutto meditare e fabulare (diaskopein te kai mythologein) di questo viaggiare e dimorare lì, quale noi ci figuriamo che sia (Platone, Fedone 61e)

Che iniziare a pensare rappresenti la prova più grande, che si tenti cioè di pensare il principio innanzitutto anziché da ultimo, Platone lo dice in queste pagine del Fedone come in tante altre dei suoi dialoghi. Cosa infatti ci può essere di più grande di cui "dare ragione" (logon didonai) se non dell'archè? Di quel principio che provoca il pensare a tal punto da farlo uscire quanto mai provato dallo sforzo di pensarlo? Ammessa per un attimo l'insufficienza del logos, la filosofia stessa si affida già con Platone a un mythos mai dismesso del tutto, al racconto del pensare più sfibrante, del vivere pensando. Un attimo soltanto, che apparirà insignificante all'attimo successivo, filtrato da un logos che nel concetto avrà sì compreso tutto, ma solo nei termini di un riacciuffare quanto all'inizio non coglie. Un attimo, di cui non si può non conservare la traccia, come di una ferita o del ricordo di un inatteso ed intollerabile incontro.

Come il logos rispetto al mythos, Aristotele arriva un attimo dopo a criptare ancora di più l'indecifrabile dandoci la parvenza di averlo decifrato, a rappresentarsi cioè e a rappresentarci l'archè: cifra del principio, filosofema di un inizio riguadagnabile solo sabotando sapientemente la pretesa di risolverne l'enigma. Aristotele ha dedicato tutto sé stesso al progetto di una "scienza dei principî" che viene prima di ogni altra scienza, di tutte le scienze che troppo tardi si scoprono essere scienze dai principî, che sempre ed irrimediabilmente li presuppongono. In chi se non in lui l'inquietudine dell'inizio poteva riconvertirsi in necessità di tracciare il fine per sbarrare da lì la strada all'indietro tanto al pensare di ognuno di noi quanto a quello di un'intera tradizione, detta poi metafisica, inchiodata all'anankaion cogente e cocente di un'archè in virtù della quale si deve sempre tornare indietro per ritrovare l'inizio che si era perso, per conoscerlo e padroneggiarlo. Basta col mythologein! grida ancora Aristotele, c'è tutta una scienza da costruire, una episteme che nella sua forma più alta potrà dire l'ultima parola -la parola archè appunto - su ciò che provoca e prova il pensare. L'ultima parola, che isola strategicamente l'inizio, quanto di più non isolabile possa esserci. Ma a dispetto di ogni progetto resta anche in lui la ferita, il ricordo dell'enigma che il logos irrimediabilmente sacrifica e che fa chiasso nel dire di Aristotele, anch'esso segno fra i tanti del pensare. Il mythologein sopravvive infatti negli "esempi" (paradeigmata) aristotelici, dall'avversario del "principio più sicuro" messo a tacere e paragonato ad una pianta (Metafisica IV), all'infinito paragonato ad una "voce invisibile" (Fisica V). Come il mythos nei dialoghi, il paradeigma è quell'altra forma della cosa di cui si parla che, "mostrandosi accanto" ad essa, supporta l'argomentare con cui la si arriverà poi a comprendere. PARADIGMI saranno in queste pagine tutte le voci che chiameremo a testimoniare dell'enigma: ognuna una fabula posta lì, accanto all'altra, ad intrecciare la filosofia del principio.


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FABIO TREPPIEDI (1984)

Formatosi filosoficamente negli anni Duemila a Palermo sui testi di Platone, Aristotele, Plotino, San Tommaso, Kant, Hölderlin, Hegel, Husserl e Heidegger. Ha approfondito il pensiero di Gilles Deleuze a Parigi, dove ha seguito i corsi di Frédéric Worms, David Lapoujade e Anne Sauvagnargues. Le sue ricerche vertono sulle potenzialità inespresse e sull'inattualità dei filosofi del passato. Nei suoi scritti si è occupato, oltre che di Deleuze (di cui è stato traduttore), di Platone, Aristotele, Kant, Husserl, Bergson, Heidegger, Foucault, Simondon, Agamben, Stiegler. Il suo ultimo libro, L'intollerabile (2022), chiude una personale trilogia deleuziana (composta da Differenti ripetizioni del 2015 e Le condizioni dell'esperienza reale del 2016). 

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