SCHEMI
"Ora è chiaro, che deve sussistere un terzo elemento, il quale occorre che sia omogeneo, da un lato rispetto alla categoria, e dall'altro rispetto a ciò che appare, in modo da rendere possibile l'applicazione della prima alla seconda. Questa rappresentazione mediatrice deve essere pura (priva di tutto ciò che è empirico), e tuttavia deve essere da un lato intellettuale, dall'altro sensibile. Tale rappresentazione è lo schema trascendentale. [...] Lo schema è sempre, in se stesso, soltanto un prodotto dell'immaginazione; ma poiché la sintesi di questa mira, non a una singola intuizione, bensì solo all'unità nella determinazione della sensibilità, lo schema è da distinguere dall'immagine [...] Questo schematismo del nostro intelletto, rispetto ai fenomeni e alla loro semplice forma, è un'arte celata nel profondo dell'anima umana, il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente innanzi agli occhi. Possiamo dire soltanto questo: l'immagine è un prodotto della facoltà empirica dell'immaginazione produttiva; lo schema dei concetti sensibili (come delle figure nello spazio) è un prodotto e, per così dire, un monogramma dell'immaginazione pura a priori, per il quale e secondo il quale le immagini risultano per la prima volta possibili" I. Kant, Critica della ragion pura, A 138 / B 177
HIKIKOMORI

Individui o gruppi siamo attraversati da linee, meridiani, geodetiche, tropici, fusi che non battono sullo stesso ritmo e non hanno la stessa natura. Sono linee che ci compongono, dicevamo tre specie di linee. O piuttosto fasci di linee, perché ogni specie è molteplice. Possiamo interessarci a una di queste linee piuttosto che alle altre. E forse, infatti, ce n'è una non determinante ma più importante delle altre...se c'è. Perché tra tutte queste linee, alcune ci sono imposte dal di fuori, almeno in parte. Altre nascono un po' per caso, da un niente, non si saprà mai perché. Altre ancora devono essere inventate, tracciate, senza obbedire a un modello e senza lasciare nulla al caso: dobbiamo inventare le nostre linee di fuga se ne siamo capaci e possiamo farlo solo tracciandole effettivamente, nella vita. Le linee di fuga non sono la cosa più difficile? Certi gruppi, certe persone non ne hanno e non ne avranno mai. Altri gruppi, altre persone mancano di tale genere di linea o l'hanno perduta
Deleuze e Guattari
Pensare per linee significa sperimentare fughe che possono dirci molto sul noi stessi, sull'orientamento anche pratico delle nostre esistenze. Fra le mille linee che ci attraversano ce n'è una, la linea hikikomori, che lascia trasparire insidie e buchi neri che minacciano il nostro attaccamento alla vita. Va detto che dare un nome a una linea, individuarla, è già assumersi il rischio di rallentarne il movimento, d'invertirne la tendenza, di tradirla. Sarà tuttavia la linea stessa a riaffermarsi nella sua più naturale tensione scalzando il tentativo stesso di assumerla, di darle un nome e tenerla ferma (se giusto il tempo per scriverla). Hikikomori, isolati, ritirato in disparte, ragazzi e ragazze che per disagio, senso d'inadeguatezza o di fallimento si ritirano nelle loro stanze, senza più uscire, rompendo col mondo fuori. Un'esistenza, questa, che stravolge i ritmi del mondo fuori, introiettandone un'immagine capovolta: s'inverte l'alternarsi del sonno e della veglia, e il tempo dei pasti, del disordine si fa la regola. La loro stanza si è fatta universo di oggetti incedibili, da cui non ci si stacca: manga, televisione, videogiochi, cataste di cibo spazzatura, supporti di ogni genere per veicolare un ininterrotto collegamento a internet. Vi è in tutto questo un che di eccessivo, cifra di un'anomalia, di una forma di vita che non si confonde né con la salute, né con la malattia ma che si trova al limite, sul margine di una banda, ai bordi di un tessuto che intreccia l'affetto più muto con l'anaffettività più chiassosa.
Non c'è modo di spiegare come una monade possa essere alterata o mutata nel suo interno per opera di qualche altra creatura. Nella monade, infatti, non si potrebbe trasporre nulla, né è possibile in essa alcun movimento interno che sia impresso, diretto, accresciuto o diminuito; ciò è possibile invece nel composto, dove avvengono mutamenti tra le parti. Le monadi non hanno finestre, attraverso le quali qualcosa possa entrare o uscire. Gli accidenti non possono entrare o uscire. Gli accidenti non possono staccarsi dalle sostanze e passeggiare fuori di esse
Leibniz
Leggiamo di loro, facciamo le nostre ricerche sul web, un po' ci immedesimiamo, ci appassioniamo ai racconti che li vedono protagonisti e scopriamo che la loro linea è in movimento già da prima di tutti questi nostri inoperosi esercizi di approssimazione ai loro mondi: strano salto sul posto, l'approfondire ogni fenomeno, tipico di quando al solo udire un termine sconosciuto lo digitiamo immediatamente su Google, riproducendo hegelianamente l'inevitabile inganno con cui si scambia il noto, quello che sarebbe solo l'inizio di un vero sapere con la sua conclusione e ci si considera già sul piano del conosciuto. Doppiamente illusorio, questo salto si configura come un inizio laddove invece la linea hikikomori già non è più, smozzata a semiretta, stretta ad un'origine. Mentre il suo non avere né inizio né fine dovrebbe restare il suo connotato più caratteristico, la sua potente anomalia: tutto è già iniziato come se la linea altro non fosse che un divenire in sé e per sé, movimento fertile proprio perché sterile di essere e di nulla, di quei termini cioè che ci permetterebbero di definirlo, di individuarlo come quel movimento. Linea hikikomori, molteplice, problematica, strutturalmente percorsa da più di un possibile e da altrettanti impossibili: ogni qualvolta assumiamo, con nostri salti nel noto, i dinamismi che più ci erano sembrato caratterizzarla sarà lei stessa a gettarcene avanti di nuovi a prolungarsi ad ogni parvenza di arresto, a spiazzarci. La vita dell'hikikomori protagonista di Shaking Tokio, mediometraggio di Bong John Hoo, è segnata esasperatamente da quest'apparenza d'arresto. L'abitudine trapassa nell'aberrazione, nell'accumulo maniacalmente ordinato delle scatole di pizza, nei piani sequenza sulle tessere del bagno o sui rotoli di carta igienica, nelle cataste di libri e riviste della stessa serie, nella pizza prenotata sempre e soltanto al sabato, nell'insieme dei di gesti e dei riti di cui l'hikikomori ci parrà schiavo. Questo il suo mondo, questa la sua gabbia, l'inaridimento estremo cui la vita è soggetta, scivolata in un buco nero.
Si va dunque dal mondo al soggetto, a costo però di una torsione capace di far sì che il mondo esista attualmente soltanto nei soggetti, ma anche che i soggetti si ricolleghino tutti a quel mondo come alla virtualità da essi attualizzata. Quando Heidegger si sforza di superare l'intenzionalità come determinazione ancora troppo empirica del rapporto soggetto-mondo, presagisce che la figura leibniziana della monade senza finestre è una via possibile, per quel superamento, poiché il Dasein, egli sostiene, è già da sempre aperto e non ha bisogno di finestre attraverso cui potrebbe prodursi un'apertura. In tal modo però egli trascura la condizione di clausura o di chiusura enunciata da Leibniz, ossia la determinazione di un essere-per-il-mondo invece di un essere-nel-mondo. La chiusura è la condizione dell'essere-per il mondo. Questa condizione di chiusura vale per l'apertura infinita del finito: essa "rappresenta finitamente l'infinitezza". Dà al mondo la possibilità di ricominciare in ogni monade. Bisogna riporre il mondo nel soggetto, affinché il soggetto sia per il mondo. Tale torsione costituisce la piega del mondo e dell'anima: l'anima è l'espressione del mondo (attualità), ma perché il mondo è l'espresso dell'anima (virtualità).
Deleuze
Leibniz è arrivato Tokio, si direbbe, un echeggiarsi reciproco della monade nell'hikikomori e dell'hikikomori nella monade, che diviene l'occasione per scoprire quanto il noto della monade e quello dell'Hikikomori non coincidano effettivamente con tutto quanto di entrambi resta impossibile conoscere e quasi possibile sperimentare. Noi non sappiamo cosa può una monade: il più delle volte la si riduce a sinonimo di chiusura del soggetto su se stesso, di solipsismo, di universo senza alterità quando, al contrario, rappresenta la fine del soggetto unico e solitario al centro della scena, l'eclatante scoperta che su quella stessa scena il soggetto non è mai stato solo. Leibniz per primo scopre quanto l'intersoggettività preceda e faccia da condizione all'esserci del singolo soggetto. La monade non esprime soltanto se stessa perché nello stesso tempo in cui esprime se stessa esprime anche, ed inseparabilmente, la totalità del mondo. Non è l'esserci, votato all'apertura (dal soggetto al mondo), dal momento che la monade attua piuttosto un ripiegamento, un intensificarsi della chiusura (dal mondo al soggetto). La prova dell'esistere diventa così non tanto l'aprirsi all'altro quanto piuttosto il chiudersi fino in fondo e vedere quanto intensamente l'altro sia presente, inemendabile. Non sappiamo cosa può una monade perché non ci addentriamo abbastanza. Saremo o no un prolungamento dell'hikikomori? La sua è una linea di torsione, un movimento certo rischioso, che non annichilisce il mondo fuori, non lo esclude davvero né lo taglia via ma lo ingloba più di quanto già non lo sia, attraverso un inaudito inclaustramento con cui il fuori è introiettato, il mondo e gli altri già da sempre trasferiti presso di noi; non li vediamo fisicamente, non vediamo la scuola, le strade, gli ambienti di lavoro, i luoghi di aggregazione, sono loro che vengono prepotentemente ad abitarci. Se è vero che ci si può scoprire monadi, lo si fa proprio perché presi in un'esperienza che intensifica terribilmente la presenza del mondo fuori in quello dentro. Che attraversi l'immagine filmica o la parola scritta, che sprofondi o riaffiori, che si addentri e scivoli nei buchi della vita quotidiana o negli anfratti della storia, la linea hikikomori è sempre una ed è sempre in fuga, quasi si spezza ma non lo fa mai davvero, accelera, rallenta e vira, aggira quel fatale punto che ne sclerotizzerebbe il movimento inchiodandolo al fenomeno, al questo o anche solo al qualcosa. Si getterà in avanti disconoscendo sempre più il nome fuorviante che per essa reputavamo adatto. Trasborderà in chi l'avrà lasciata andare, lasciandosi attraversare.
SEGNO

Per fare il fumetto bisogna partire dal segno. Il segno è una metafora meravigliosa, è la prima cosa che mi viene in mente…noi siamo circondati da oggetti tangibili depositari di un segno o di una serie di segni, dallo studio di questa serie di segni nasce la matematica del segno e cioè il disegno
Andrea Pazienza
Il segno è cifra, tratto distintivo, prova che c'è la mano del disegnatore, di Barks, di Moebius, di Pratt, di Manara, di Pazienza. I segni così intesi e tutte le loro differenze non rimandano solo a questioni di stile per cultori e specialisti ma anche allo stile come questione a sé, ad un enigma proiettato oltre il disegno e l'arte. Non sempre un segno che si dice essere d'artista risulta poi legato ad una determinata mano, al disegnatore a cui lo si attribuisce, pensando di riconoscerlo. Cruciale è scoprire in che misura il segno, più di quanto non accada in chi osserva, cortocircuiti la memoria e l'attitudine al riconoscimento di chi crea, dell'artista stesso, del disegnatore che si presume ne possieda uno tutto suo e lo tenga sempre lì, nella sua mano. Il segno è plurale, in esso ne va più dell'apertura all'ignoto che al noto, quindi della revoca in questione dell'artista canone di sé, detentore presunto di un segno inequivocabile, fin troppo singolare, riconoscibile persino quando la mano non è la sua. Meno canonicamente, nella pluralità dei segni l'enigma dello stile s'intensifica, cristallizzato già nel nostro dire "segno", al singolare, per intendere un che di molteplice, l'assommarsi cioè del riconoscibile e del non riconoscibile nel disegno, nei segni che cortocircuitano il nostro inconsapevole osservarli, il non riconoscerli ancora, l'erroneo attribuirli. Andrea Pazienza attesta la difficoltà dello stile, sperimenta l'attrito del non canonico sentendo di non detenere segno, di non poterne fissare uno come il proprio. Difficoltà che gli appassionati al contrario faticheranno ad attestare, addestrati nel tempo a riconoscere un segno, quello di Paz, certamente destinato alla celebrità. Questo destino è solo la chiosa dell'enigma, un finale spesso ingombrante che lascia nell'ombra la difficile esperienza, visceralmente vissuta da Pazienza, del dover ogni volta ricominciare a disegnare sentendo di non essere padrone del segno, pur nella consapevolezza che è sempre da questo che "bisogna partire".
Il corpo è per l'artista un Teatro di Operazioni, l'ambito di una ricerca, un modello sempre a portata di mano e a buon mercato, un Robot, l'avvio d'una investigazione, la verifica del gesto, il veicolo dell'Arte e le arti altre. Perciò io NON amo il mio corpo in quanto di serie A, ma per la tenerezza che mi fa quando mi saluta denutrito un mattino allo specchio che non mi guardavo da molto tempo. I muscoli, drappeggiati come veline sulle ossa
Andrea Pazienza
Sceverato dal rinfocolarsi del cliché dell'artista che si riconosce dal segno, il disegnare può scorgersi per come viene sperimentato: un prolungamento nel racconto dei tratti di un rompicapo di vita vissuta in cui ci s'imbatte, di un meraviglioso che travolge. Nel complesso il segno, il rompicapo nella sua interezza, è l'onda che parte dall'"oggetto tangibile" in cui il segno è ingabbiato, investe il corpo dell'artista (come se del segno questo accusasse il colpo) e trapassa, ad opera dell'artista, su un piano in cui non c'è più oggetto tangibile, di là dal tempo, lì dove il segno cessa di essere un rompicapo e l'iniziale urto violento della sua onda diviene un librarsi sublime e inarrestabile. Il segno è "metafora" proprio per il dinamismo che contiene, lo stesso che l'artista sprigiona accogliendone il rivelarsi, testimoniandone l'indicizzarsi dapprima silenzioso, come un movimento sempre già iniziato, tale per cui l'artista sa che il suo compito è prolungarlo nell'eterno, e che per far ciò dovrà anche risalirvi alle spalle. Oltre a rappresentare la tecnica attraverso cui il disegnatore traspone le cose sulle tavole del fumetto, il segno coincide con il modo in cui le cose stesse colgono la sensibilità del disegnatore in quanto artista. Nel fumetto, dove tutto è segno e i segni sono in tutto, si esprime la sperimentalità propria dell'arte. Si tratta di "vedere le cose" come in un tessuto nel quale i segni sviluppati sulle tavole dei fumetti – pur differenziandosene – non rimandano a una realtà assolutamente altra da quella degli "oggetti tangibili" nei quali quei segni sono inviluppati e dai quali bisogna necessariamente "partire" per creare il fumetto. Esperire i segni in siffatto modo rappresenta la via maestra, certamente tortuosa e imprevedibile, che fa del fumetto di Andrea Pazienza una sperimentazione che è vita e conoscenza al contempo. Non più chiamato soltanto a descrivere in maniera immaginaria e astratta il senso del mondo di cui il disegnatore fa esperienza, infatti, il segno è ora oggetto di una costruzione che implica per il disegnatore, ad ogni istante in cui vive e opera, uno "studio" dei segni che è anche "Esercizio con la E maiuscola". Se a livello di esercizio infatti il "sapere disegnare" non prescinde mai dalla capacità del "corpo delle cose" e del "corpo dell'artista", a livello di studio, d'altra parte, questo "sapere"
non si
svilupperebbe senza l'apertura dell'artista alla variabilità e alla pluralità
dei segni in rapporto al tempo e allo spazio della sua esistenza. Il "corpo
dell'artista" deve a questo scopo potere "contenere una serie di segni
diversi", essendo il più delle volte preso in rapporti di forza col "corpo"
delle cose e degli eventi che lo investono. Lo studio dei segni perciò parte
necessariamente dal corpo "tutto sotto sequestro" dell'artista, esposto alla
violenza di cui il segno è veicolo. I segni, inviluppati nel "corpo delle
cose", chiedono all'artista, con radicale insistenza, di essere sviluppati,
evocati e raccontati nel segno. "Tracciare segni su segni" significa liberarli
dall'involucro del tempo, portare a forma la porzione d'eternità riposta in
essi. Esercizio e studio delineano un vero e proprio percorso conoscitivo, un
apprendimento "matematico" dei segni, alimentato dell'inesauribile tensione tra
i due sensi del tempo in
gioco nella vita di ognuno. Se lo studio dei segni mira a dare una forma
appropriata all'eternità in essi contenuta, l'esercizio dei segni si realizza
giocoforza nel tempo che scorre inesorabile e detta le fasi dell'esistenza,
determinandone l'inizio e la fine necessari. Ansie, inquietudini, eccessi e
"paranoie galattiche sulle quali non tramonta il sole" si legano a questa
tensione, tutta interna al "corpo delle cose", tra tempo ed eternità.
L'attitudine dell'artista, sotto questa luce, sembra maturare come una seconda
natura, consistente nel restituire al mondo e a tratti ricercare quella stessa violenza
dalla quale ogni persona per natura fuggirebbe. Violenza avvertibile
soprattutto nella sensazione di ritardo sui segni che pervade i fumetti di
Andrea Pazienza.

Lì dove si dà l'incolmabile scarto tra eternità dell'arte e tempo della vita, infatti, il segno ha già messo irrimediabilmente sotto scacco l'artista, colto in quella paradossale condizione di "resa invincibile" che emerge però come una prospettiva tanto più ricca di narrazioni quanto più gravida di risvolti esistenziali. Ne Il segno di una resa invincibile, scritto con l'amico Marcello D'Angelo, Andrea Pazienza dà espressione al paradosso del segno raccontando la vicenda di un gruppo di amici accomunati dalla passione per la fotografia. Nelle tavole di questa storia, il corsivo delle parole del narratore si alterna allo stampatello interno ai riquadri raffiguranti immagini sparse nella sua memoria. I personaggi della storia sono tutti immortalati, al centro della prima tavola, in una foto che suscita nel narratore il ricordo del protagonista, Michele, "il primo a sinistra". La storia ruota fondamentalmente attorno a Michele e alla sua sensibilità indecifrabile – "che lo faceva soffrire di tutto come D'AMORE…". –, ma il suo motivo centrale è la caccia serrata, imbastita dal narratore, di un segno che fissi in eterno la straordinaria ed enigmatica personalità di Michele. La tensione tra tempo ed eternità viene qui pienamente assunta da Andrea Pazienza, che la libera e la ricrea nel disegno. Il tempo non evita infatti di scandire le stagioni della vita dei quattro protagonisti, scorrendo inesorabilmente e, soprattutto, lasciando emergere i segni inequivocabili della giovinezza che si esaurisce, dal venir meno della passione artistica rispetto alle priorità del quotidiano al tradimento dell'amore e dell'amicizia da parte del narratore e di Lella, che consumano segretamente un rapporto tradendo Sandro, ricoverato per un'epatite.

Non manca tuttavia l'elemento d'eternità – fugacemente anticipato laddove il narratore intuisce che Michele ha "ormai da tempo sposato l'idea del suicidio" – che solo alla fine si scoprirà sottendere l'intera storia. Con la sola compagnia della sua terribile intuizione, il narratore deve confrontarsi anima e corpo con l'impossibilità di trovare il segno che cerca nell'arco di tempo sempre più stretto che lo separa dal giorno in cui Michele porrà fine alla sua vita. Avendo vissuto il segno che cercava come un che di sostanzialmente perduto, il narratore finirà con lo scoprire quel segno tanto agognato proprio nella morte di Michele. Più nel complesso, il segno è destinato ad essere di volta in volta perduto proprio perché nella perdita del segno è riposta l'unica possibilità di ritrovarlo, di farlo cioè effettivamente emergere lì, su quel limite estremo che fa del fumetto un'esperienza di vita e uno strumento di conoscenza. Il senso e la portata della rottura nella storia del fumetto che molta critica attribuisce ad Andrea Pazienza restano concentrati su questo limite. La realtà della vita irrompe prepotentemente nel dominio fantastico e solo in parte irreale del fumetto, e lo fa a partire da un principio di non ipotecabilità del segno. Principio che d'altro canto permette di ricomprendere le storie di Andrea Pazienza sotto il segno – uno e molteplice – di un inedito polistilismo. Tali storie sono reali e tuttavia non meramente realistiche o di cronaca; sono fantastiche o ad alto gradiente onirico e tuttavia inassimilabili all'universo parallelo, ma alquanto separato, delle più tradizionali storie a fumetti.
Non voglio pensare: questa storia mi piace, può funzionare. Il concetto non mi passa neanche per l'anticamera del cervello. Piuttosto preferisco essere libero, essere definito inaffidabile. Anzi voglio rimarcare la mia assoluta inaffidabilità
Andrea Pazienza
Sta quindi nella perdita del segno il punto di forza dell'opera di Andrea Pazienza. Il segno si mostra infatti, tra una storia e l'altra così come tra una tavola e l'altra della stessa storia, passibile di non essere riconosciuto o da subito apprezzato, né dal lettore né tantomeno dal disegnatore. Nell'"inaffidabilità assoluta" cui Andrea Pazienza aspira riecheggia l'imprevedibilità di segni talmente violenti e ambigui da non permettere al disegnatore di riconoscere immediatamente il proprio particolare segno, che per ciò stesso diviene oggetto, una volta ancora, d'incessante ricerca. Nel suo essere propriamente sperimentato, come visto, il segno è più ciò che l'artista tende a ritrovare che non qualcosa di acquisito una volta per tutte. Da angusto involucro dell'eternità in esso imprigionata, in quest'esperienza profonda, il segno acquisisce i caratteri e le dimensioni di una "stanza", così la chiama Andrea Pazienza, in cui scrutare l'eternità per poi liberarla nel racconto. Oltre a suscitare esilaranti esplosioni di comicità con le vignette satiriche e le storie brevi, Andrea Pazienza è riuscito a dare forma agli aspetti più reconditi e oscuri di sé e del mondo in cui ha vissuto, dal fascino irresistibile per la violenza di Zanardi ai drammi della tossicodipendenza e dell'abbandono di Pompeo. La crisi è una condizione che nell'esperienza dei segni non manca mai: l'apprendimento dei segni non prescinde cioè dal senso di ritardo pocanzi evocato, dal turbamento, dalla perdita imprevista di certezze o punti di riferimento, quindi, da tutti quegli elementi attraverso i quali si manifesta l'essenziale violenza dei segni. Quanto più il segno è "meraviglioso" tanto più, in effetti, la meraviglia dei segni arreca anche inquietudine e dolore. L'autobiografismo di storie come Penthotal e Pompeo, infatti, è la riscrittura in segni delle ferite dell'artista, segni "su" cui Andrea Pazienza non fa che tracciare segni a sua volta. È tuttavia in rapporto a questi elementi cupi o finanche mortiferi di una vita che l'apprendimento dei segni, riconfigurando originalmente la dialettica di eros e thanatos, si rivela tanto "un fenomeno legato indissolubilmente alla gioia" quanto anche "un modo per arrivare al godimento".
A seconda delle esigenze del racconto, che sia una storica comica, drammatica o anche angosciosa, uso per ognuna di queste storie un segno diverso contenuto in qualcosa di molto simile ad una stanza, nella quale entro e nella quale ci sono già tutti gli ingredienti che mi servono a costruire una storia di questo tipo
Andrea Pazienza
Natura
enigmatica, questa del godimento a cui l'artista cerca di arrivare, dal momento
che vi accederà necessariamente a partire dalla traumatica perdita dell'oggetto
agognato. Se in un primo momento, laddove cioè il segno è sempre riconoscibile,
il fenomeno del creare il fumetto si risolve nel mettersi sulle tracce
dell'oggetto senza tenere conto della sua inaccessibilità, in un secondo
momento, che è poi quello in cui l'enigma emerge in tutta la sua portata,
sembra che sia proprio su questo accesso impossibile che si fondi la creazione,
come se il compito dell'artista non fosse nient'altro che custodire
quest'inaccessibilità. La differenza più rilevante tra queste due concezioni
del creare artistico è che mentre nella prima la creazione sussiste anche a
prescindere dall'esperienza di crisi che la origina e la motiva nella seconda,
viceversa, la creazione non si separa mai da essa. L'esperienza del segno in
Andrea Pazienza, sotto quest'ultima prospettiva, conferisce senso alla tensione
tra eternità e tempo anche nell'affidarle una direzione riprogettabile da una
"stanza" all'altra. Il tutto in rapporto a "esigenze del racconto" che, nel
loro variare, confermano il tenore di una ricerca artistica e ne rivelano la
funzione critica assunta in ogni momento della vita di chi la porta avanti. Andrea Pazienza esprime così la propria
capacità di ritrovare e fare rivivere momenti e situazioni in cui, contro ogni
attesa, altri modi di sentire le cose, altre situazioni possibili e altre
strategie di vita ci fanno segno e prendono forma dentro il mondo, di cui
facciamo esperienza come di un mistero, di un rompicapo, di un enigma.
POLITICA (I)

È la prima volta, questa, vecchio come sono di compiuto settanta anni, che salgo i gradini di un tribunale; e dunque io sono realmente straniero alla eloquenza di questo luogo. Ora, come voi, se davvero io fossi straniero di patria, certo mi compatireste se parlassi in quella lingua e in quei modi nei quali fossi stato allevato; così dunque vi prego, e mi pare ragionevole preghiera, che non badiate al modo mio di parlare; il quale potrà essere peggiore di quello dei miei accusatori e potrà essere anche migliore; ma badiate solamente a questo, e a questo poniate mente, se io dico cose giuste o no: perché questo è il dovere di chi giudica; com'è dovere di chi parla dire la verità. Innanzi tutto dunque, o cittadini Ateniesi, è giusto che io mi difenda dalla falsità delle prime accuse che mi furono fatte e dai primi accusatori; e poi dalle nuove accuse e dai nuovi accusatori. Perché di accusatori ce n'è stati parecchi davanti a voi, e già da molti e molti anni, e senza dire mai niente di vero: e costoro io li temo assai più che Anito e i suoi amici; sebbene anche questi siano accusatori terribili. Ma quegli altri sono più terribili ancora, o cittadini; quegli altri i quali, avendovi presso di sé, la più parte di voi, fino da fanciulli per educarvi, cercarono di persuadervi contro me di accuse non meno false: che c'è un tal Socrate uomo sapiente, che specula sulle cose celesti, che investiga tutti i segreti di sottoterra, che le ragioni più deboli fa apparire più forti.
Platone, Apologia di Socrate
I racconti degli inizi dei filosofi, come gli aneddoti di Diogene Laerzio sulle loro vite, stuzzicano da sempre un pubblico che tuttora, quando un filosofo apre parentesi biografiche, si aspetta di ascoltare gli episodi libreschi di cui è nutrito, dall'incontro folgorante con un maestro ai segni del talento precoce, del bambino filosofo che chiede ad esempio ai genitori quanta acqua c'è nel mare. Si agevola così il trapasso nell'agiografia, lì dove si vede nell'incontro di Platone con Socrate l'accendersi di una passione politica da elevare a kènosis, al sacrificare sé per la comunità. Si consuma qui per il discepolo, nell'Aeropago divenuto Golgota, un incontro spacciabile per la versione laica della conversione sulla via di Damasco. L'antica fame di aneddoti si assomma a una sete di pensiero tradottasi oggi in obbligo di trasformare la realtà poiché, dice l'assetato, per troppo tempo la si sarebbe solo interpretata. Fame e sete inducono il pubblico a pretendere dai filosofi l'engagement di progettisti del futuro, i cui discorsi siano ricette nelle quali gli atti prospettati, le comunità di domani mondate dai mali, precorrano e direzionino il passaggio alla loro realizzazione. Ma più il pubblico pretende e più si colloca a massima distanza dal punto d'insorgenza di un discorso, quello dei filosofi, iniziato ben prima che si finisse col misurarne la spendibilità politica. Il pensatore è allora eclissato già prima di parlare, e laddove tradisce le aspettative del pubblico, questo è pronto a far rifluire sulla sua persona i grigiori della demistificazione, nuvole come quelle su cui Aristofane collocava Socrate. Perciò quest'ultimo non può che vedere nell'autodifesa l'attacco migliore, l'inizio più opportuno del proprio discorso ed al contempo la disposizione più congeniale dei suoi elementi, consapevole di quanto da lui il pubblico si aspetti cose già lette o sentite dire. Socrate sa quanto ci si aspetti dalla filosofia un transito più o meno immediato nell'agire, un passare all'atto che i più reputano inscritto e radicato nel pensare, anteposto alle miriadi di possibilità che hanno potuto informare la vita stessa del pensatore, non ultimo alla stessa possibilità che egli non faccia filosofia con l'impegno o l'intento di cambiare la realtà. Solo su questo, di qua dalle intenzioni dell'uno e degli altri, aspettative del pubblico e discorsi dei filosofi in fondo non collidono. Che si sia dapprima tutti impotenti, che le nostre aspettative di uditori e di lettori ci tengono separati dall'inizio, dalla fragile possibilità di cominciare a pensare davvero, emerge infatti dai discorsi dei filosofi, e più spesso dal racconto dei loro inizi, come la prima tra le condizioni della loro presa di parola, il muro su cui è necessario che il pensiero impatti prima di farvi breccia, attraverso cui deve passare ancor prima di progettare il passaggio all'atto che da più parti si richiede con sempre maggiore insistenza.
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CENTRO

Ma anche così e anche se così è possibile e forse, anche, dolorosamente attuale, pensare, rimane che la sapienza di questa interrogazione piantata nel pensare stesso è la sofferente sovversione di una acutezza del pensare che chiede, umanamente e non solo per questo afilosoficamente, di non essere o di essere privata del suo kèntron: di quell'acme aguzza del pensare che è lo stesso pensare. Lancinante e arduo nelle sue profondità. Oscuro nel suo lavorio speculativo. Impervio nelle dialettiche del principio. Senza fine nella posizione del fondamento.
Incardona, Kèntron
Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri [kenes apates] ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo
Lettera ai Colossesi 2, 8
Prigionieri in catene marciano cotti dal sole, carcerieri incarogniti dall'arsura li scortano. Mosche turbolente, labbra secche, a guidare tutti c'è Saul a cavallo. Questo ebreo un po' altero, cresciuto da civis romanus nella provincia orientale, non si chiede come stiano i prigionieri. Morire di caldo sarebbe persino misericordioso per chi tradisce la Legge come loro. In questo Saul è più che intransigente. Fieramente agguerrito come l'antico re di cui porta il nome, si è fatto compiaciuto spettatore della morte di Kelil, dilaniato a sassate per la sua fedeltà al bestemmiatore. Questi infami partiti in catene da Gerusalemme - medita Saul - non sanno cosa li aspetta: traviati anche loro dal Galileo, sarebbero stati tutti trucidati all'arrivo. Che le pene si eseguano al meglio è l'impegno di cui Saul si fa carico sia per lo zelo infuso dalla Legge in lui e in mille altri fratelli sia anche per la noia, chissà, che l'uomo del suo rango prova verso tutto il resto. Anche verso la filosofia, che Saul finirà col giudicare "vuoto raggiro (kene apate)" (Col. 2, 8), seduzione insensata del logos decadente e pagano, di quel pensare, parlare e scrivere come un greco i quali, se non altro, avevano fatto conquistare a Saul le simpatie dei romani che contano, dei veri domini. Il corteo prosegue e ormai Damasco non è lontana. Come da una fornace esplosa però, una marea di calore investe tutti di soprassalto. Saul sente la pelle bruciare e, sfioratosi il volto, avverte che le palpebre di sopra stanno fondendosi con quelle di sotto. Violentemente disarcionato, alzandosi da terra è soverchiato nel dolore da una voce che non è né di prigioniero né di carceriere. La voce lo sconquassa invadendolo da dietro, gli risale le spalle con calma e determinazione disarmanti tanto nel chiamarlo ("Saul, Saul") quanto nel porgli la domanda ("perché mi perseguiti?")e nel rivelargli la verità ("ti è duro recalcitrare contro il pungolo"). È la verità inchiodante di un "pungolo (kèntron)" penetrato in lui come "spina nella carne" (2 Cor. 12, 7). Ma cosa d'altro canto questo pungolo veicola se non lo stigma di pensare? È forse l'acme che scheggia di aporie la vita e vi affonda? L'onda aguzza di un'inaudita voce penetra e risale in Saul a guisa di un parlare ebraico arrivato a sbozzare proprio quella parola, kèntron, che rifluisce con tutte le altre parole nell'udire di Saul in una lingua già diversa, il greco. Così un kèntron agisce, e così ogni volta ferisce, cardine e leva per la stretta del kilíkion che affastella in una sola maglia chiodi destinati a tatuare l'esistere. È quanto di più traumatico ci sia, ferita per il sentire e thauma per il pensare. Lo schizzo di una così esorbitante sferza è offerto proprio dalla voce che assalta Saul, da questa straniante venuta che s'impone prossima pur essendoci già stata. La filosofia da parte sua tenta di risalire meta logou alle spalle di enigmi come questo, croce senza delizia della theoria è infatti il trovarsi ad iniziare dopo che l'inizio si è dato.
Hai gli occhi aperti, e non lo distingui? Ti è duro recalcitrare contro il pungolo [sklēron soi pros kentra laktizein], bada che non ti faccia male!
Eschilo, Agamennone

Saul, Saul. Perché mi perseguiti? Ti è duro recalcitrare contro il pungolo [sklēron soi pros kentra laktizein]
Atti degli apostoli 26, 14
Sempre, necessariamente e irrimediabilmente, il pensare ha modo di attivarsi facendo resistenza a un kèntron, magari fuggendolo e schivandolo, ad ogni modo assecondando un che di assolutamente primo ritrattosi da un pensiero subito sbalzato in uno stato di deconcentrazione cronica. Il kèntron ci dà a pensare proprio nella misura in cui non troviamo da noi l'inizio, non sappiamo propriamente darci quel punto di partenza che è il nascere del nostro pensiero ad una direzione e ritrovarsi da qui sempre o in qualche modo direzionato. Come le ferite lasciano avvertire il dolore solo dopo essere giunte, così ciò che è primo nel pensiero sembra farvi ingresso solo alla fine, sia come il termine verso cuimuovere sia come l'illeggibile dettato di uno sviluppo. In quest'ultimo senso kèntron non è solo inizio, sorta di scaturigine che uscirebbe di scena dopo aver fatto la propria parte, ma è anche principio, soggetto di un dramma, il pensare in sé, articolato dall'alfa all'omega come un atto unico. Attorno alla scena così configuratasi la filosofia non può fare quadrato essendovi come intrappolata, stretta dal kèntron senza potervisi stringere a propria volta intorno. Ad ogni tentativo d'inquadratura, la filosofia si scopre incardinata già in un kyklos ricco di dedali che ne rendono singhiozzante l'andamento, già ad ogni inizio. Stretta singolarmente potente, quanto più si crede che le maglie si allarghino tanto più l'intrico s'infittisce.

Indiscernibile nelle maglie che intesse, il kèntron è all'origine della stessa illusione di padroneggiarlo. Accade ciò ad esempio ogniqualvolta pensiamo l'archè solo come "inizio" ed al massimo "principio", lasciando cadere all'ombra del kèntron il suo significare anche "comando". Condottiero che, nell'operare come inizio, dà la mossa alla truppa che lo seguirà, il kèntron, nell'operare al contempo come principio, detta anche la strategia ai commilitoni per tutta la battaglia, ribadendo così l'inscriversi del comando nell'archè già dal momento in cui, nell'atto stesso di pensarla, la si concepisce a parte ante come ciò che ci ha propriamente dato l'impulso a pensarla e, a parte post, come ciò che ci ha condotto a pensarla tutta, per intero, e che siamo poi tentati di racchiudere in un concetto. Ma sempre in virtù di questa sua più completa articolazione il kèntron, vulnerato il pensiero con mossa repentina, vi arreca come sintomo il dimenticare la pregnanza del comando nell'archè. Col farne un concetto la filosofia paga a caro prezzo la possibilità di dire che cos'è l'archè, incavernandosi il più delle volte nella presunzione di comandare, di aver stretto una volta per tutte l'archè e di padroneggiarla. Crudele rovescio di troppo umana superbia, ciò che la filosofia ha in realtà modo di tenere fermo non è già più il kèntron, l'inizio e il principio che spesso si è illusa di padroneggiare, ma è solo una delle scie che il "nascimento che comanda" - così il kèntron balena nell'hermenèia di Colli - lascia dietro di sé, lo strascico umbratile del principio nominato archè da un logos presuntuoso e lento, tardivo come il riflusso in altra lingua della voce alle spalle di Saul. Più rapido e incontrastato di ogni primum vivere deinde philosophari, resta pur sempre il kèntron a decidere tanto del philosofari quanto del vivere, condizionandoli alla lotta per posizionarsi dopo il primum e prima del deinde, l'uno con o contro l'altro ovvero con o contro se stesso. Lotta che stabilirà a sua volta come ritrarre il ritraentesi kèntron, quanta distanza c'è quindi tra il suo darsi e il riacciuffarlo e, in ultima battuta, sequesta distanza è riassorbibile meta logou.
Dal significato originario di aculeo, kèntron passò col tempo, ma già come metafora, a indicare la punta del compasso e, con essa, il punto fermo che intacca una superficie originando una circonferenza [...] A sua volta, periphéreia è uno dei nomi della circonferenza e dunque del luogo, derivato e lontano, di quei punti che hanno come proprietà principale quella di essere distanti dal centro, ossia dal luogo che è anch'esso un punto, ma per sua essenza diverso da tutti gli altri. Centro diventa allora uno dei nomi dell'origine e della sua permanenza, segno d'identità stabilita (il punto fermo del kèntron), centro dunque di attenzione, di memoria e di cura: insomma, un punto "vitale". Ci troviamo di fronte ad una procedura tipica, anzi al gesto fondamentale, della metafisica: la posizione di un punctum centrale, di una fondazione, di un principio.
Saviani, Intorno al centro
Alle verità della filosofia, manca la necessità, e l'artiglio della necessità. Sta di fatto che la verità non si concede, si tradisce; non si comunica, s'interpreta; non è voluta, ma involontaria. Questo è il grande tema del Tempo ritrovato: la ricerca della verità è l'avventura precipua dell'involontario. Il pensiero non è nulla senza qualcosa che costringa a pensare, che faccia violenza al pensiero. Più importante del pensiero, è ciò che «fa pensare»
Deleuze, Proust e i segni
Un comando gratuito: l'arbitrio, la casualità, il giuoco - di una sferza, di un'autorità, di un vincolo, di una violenza, di una magistratura, di una sovranità, di un primo principio. Ogni dualità si raccoglie nel termine archè, dove 'il nascimento comanda'
Colli, Filosofia dell'espressione
Il
proliferare di filosofie, accomunate dal presumere di tenere fermo quanto si
lascia solo riacciuffare, altro non è che l'inanellarsi all'ombra del principio
di miriadi di archai ridotte a concetto, nominate e mai pensate, gravitanti
attorno al medesimo cardo che è poi un kèntron non scorto, un "nascimento"
non saputo al comando. Pretendono sterili di abbracciare il principio senza patirne
il sussulto, l'unica prova cioè che fonderebbe la loro pretesa essendo
il kèntron il fondo dal cui contatto si generano sia il concepire l'archè
sia anche il poter stare a quanto di più difficile è in essa implicito. Acuto vibrare
di un aculeo che, toccando il pensare, v'inocula domande ai limiti
dell'insolubile. Il principio si fa questione di vita o di morte, come nella
sfida tra Mopso e Calcante, enigma crudelmente canzonatorio soprattutto quando non lo si scioglie. È questa
tuttavia un'esperienza preclusa a chi presume di abbracciare l'archè solo
nominandola o dandosene il concetto, come se intorno al kèntron si
potesse operare una stretta, deliberatamente, con la ragione, col cuore o con
entrambi. È il destino più miseramente canzonabile delle prospettive che si pensano
al centro non essendo altro che periferie dipendenti da un centro neanche
lontanamente intravisto. Certo è che le sferzate del kèntron catapultano
in avanti il pensare,
lo disarcionano come Saul. Prova piuttosto dirimente, l'artigliata del
principio tempra la capacità dei filosofi di stare al centro, non certo come
l'aggirarlo o lo spodestarlo quanto piuttosto come l'accusarne il colpo e
muovervisi in risposta. Così leggeremo la vicenda di Saul, come movimento innanzitutto,
come il vivere pungolato da ciò contro cui non è facile recalcitrare. Un movimento
da sempre iniziato - "mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò" (Gal.
1, 15) - fa rispondere
Saul al suo ritrovarsi investito da quella voce straniante e si articola nell'andirivieni
incessante dalla periphéreia in cui Saul risiedeva nella prima parte della
sua vita, illuso di stare al
centro del mondo, al kèntron ossia alla meta da cui si è
sentito chiamare.
Calcante, giunto a Colofone, trovò Mopso, suo collega nell'arte profetica, figlio di Manto figlia di Tiresia; e gli propose un quesito canzonatorio ed insolubile. Ma il canzonato fu lui, perché Mopso lo risolvé; e Calcante morì dalla passione.
CALCANTE: Stupir quel caprifico mi fa, che sì piccolo essendo, ha tanti e tanti fichi: il numero dir ne sapresti?
MOPSO: Son diecimila in tutto, li può contenere uno staio: uno ce n'è di troppo, né farcelo entrare potresti.
Così disse; e si vide che il conto tornava a puntino. E della morte il sonno s'effuse quel dì su Calcante.
Esiodo, Melampodia
Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco. In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni.
Lettera ai Galati 1, 15-17
non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch'io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte. Corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù
Lettera ai Filippesi 3, 12-14
Oggi Saul, passato egli stesso alle nostre spalle - disarcionati noi stavolta fuori da ogni "tempo di ora (ho nyn kairós)" (2 Cor., 6,2) che ci renderebbe suoi contemporanei - si è rimpicciolito in Paolo, nel nome cioè che è tanto più irrimediabilmente primo per noi quanto più fu secondo per lui. Oggi la via di Damasco è trafficata come il più orientaleggiante dei mercati o la più inflazionata delle capitali. L'abbiamo popolata noi stessi facendone un topos, un modo di dire (...l'essersi convertiti sulla via di Damasco) con cui siamo soliti immettere idealmente sulla via lungo la quale si è infuocata la vita di Paolo un fascio esteso di altre vite, a nostro dire piuttosto spente. Vite che, si badi bene, saranno sempre e comunque le vite degli altri, di chi amiamo giudicare, o piuttosto, di coloro che magari diciamo di amare nel segno della Croce ma che più segretamente amiamo proprio perché, forse più nel segno di un Saul rimpicciolito da tempi non più suoi, ci è sempre possibile giudicarli. Non si dà mai insomma del «convertito sulla via di Damasco» a qualcuno per lusinga, dal momento che nel dire ciò assimiliamo tante vie alla via di Damasco, tante vite alla vita di Saul, a partire da una topica ipocrisia imputata tanto agli altri quanto all'uno, tanto agli opportunisti di ogni tempo, sempre pronti a convertirsi, a cambiare radicalmente posizione, quanto al giudeo fattosi cristiano per opportunità, che ha esaltato più di altri un kairos secolarizzato, l'occasione propizia, il tempo opportuno. Nella singolare vicenda del tredicesimo apostolo molti e perlopiù divergenti sensi della conversione, della periagoghè come prima movenza del filosofare, finiscono col convergere: persecutore fattosi perseguitato, accusatore passato dall'altro lato della sbarra, antifilosofo seducente più di mille altri filosofi.
Vuoi dunque che ora esaminiamo il modo di formare tali persone e di condurle alla luce, come si dice che alcuni dall'Ade siano ascesi tra gli dèi?» «Certo che lo voglio!», esclamò. «Questo però, a quanto sembra, non sarà come girare un coccio, ma comporterà una conversione dell'anima [periagoghe tes psyches], da un giorno di tenebra notturna a un giorno vero, ossia un'ascesa verso l'essere, che noi chiameremo la vera filosofia
Platone, Repubblica
Suscita fascino questo animo pregno di contraddizioni, moltiplicato e diviso come divisi e moltiplicati d'altronde si ritrovano nell'animo coloro che a tale fascino non sono indifferenti: la veemente repulsione di Nietzsche per Paolo si spiega così, come profonda attrazione per ciò che inorridisce, come lo sguardo di un fanciullo colto a penetrare gli esili spazi tra le dita delle mani con cui un attimo prima tappava gli occhi, per non vedere sì, ma anche un po' per sbirciare. Da Nietzsche ad Agamben, passando per Heidegger, Deleuze e Badiou, la schiera dei filosofi attratti da questo irresistibile avversario non smette di ampliarsi. Il suo convertirsi ha trasfigurato il senso stesso della periagogia, di quell'arte delle conversioni che la filosofia è sempre anche stata.
Basterà però la sola contraddizione a contenere, se contenibili sono, tutti i sensi della conversione impliciti nella vicenda di Saul? E tutte le sfumature comprese, se comprensibili sono, tra seduzioni e repulsioni da lui sperimentate e suscitate? Forse che due lati soltanto e il movimento in essi comprensibile non bastano? È sì una questione di movimento, la periagoghè già sbozzata da Platone, di un nugolo di movimenti che decentrano ogni questione su un versante non più compreso tra i due lati di una contraddizione. Onde e riflussi, fibrillazioni e arresti, contrazioni e stiramenti, vortici e accelerazioni, passano tutti per un kèntron a cui si risponde senza pretendere di comandarlo, a cui stare sopportando la scistosità dei suoi strati, che sfregano sempre il pensare. L'inaudito che assalta Saul è infatti il disoccultarsi di una sottilissima membrana di grecità schiacciata tra vecchio e nuovo testamento, di un logos che, passando dalla legge all'incarnazione, smarrisce un centro per riguadagnarne un altro.
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